Speciale
Scenario 2013
Successo clamoroso per lo
Speciale Scenario 2013, la due giorni di immersione entro i
nuovi linguaggi del teatro (tra performances, incontri con gli
artisti e momenti di approfondimento), che si è tenuta a Pescara
nelle date del 5 e 6 ottobre scorsi per iniziativa del Florian,
Teatro Stabile di Innovazione, socio storico e tra i più attivi
dell’Associazione Scenario, promotrice dell’omonimo premio. Tutto
esaurito in ogni ordine di posto in occasione di ciascuno dei quattro
spettacoli proposti in anteprima sui palchi alternati del Florian
Espace e dello Spazio Matta.
L’evento Speciale
Scenario 2013 nasceva proprio dalla volontà di valorizzare
tramite il confronto diretto con il pubblico e gli osservatori di
settore i progetti di messinscena che il Premio raccoglie (ormai dal
1987) su base biennale -interloquendo con le generazioni più giovani
di artisti ed operatori teatrali dell’intero territorio nazionale-
e che ha visto nell’edizione di quest’anno una fioritura
particolarmente prolifica di proposte artistiche di assoluto valore.
In quest’ottica, i quattro progetti presentati al pubblico
pescarese sono stati selezionati secondo criteri di “premialità”
lontani dai palinsesti ufficiali: un progetto vincitore (“M.E.D.E.A.
Big Oil” del Collettivo InternoEnki, vincitore del premio
Scenario per Ustica), una segnalazione speciale (“Trenofermo
a-Katzelmacher” della formazione nO - Dance first, Think later
) e due progetti finalisti (“Cinque Agosto” di Serena di Gregorio
e “L’uomo nel diluvio” di Valerio Malorni).
Il Premio Scenario si
articola difatti secondo un percorso assai lungo, strutturato in più
tappe di selezione, tramite cui i circa 200 progetti presentati
inizialmente alle commissioni di zona giungono ad una scrematura
intermedia di circa 50 semifinalisti, prima della finale che da
qualche anno viene ospitata presso la cornice prestigiosa del
Festival di Santarcangelo, dove giungono solo tra i 10 ed i 12
progetti a contendersi il Premio Scenario (per il miglior progetto),
il Premio Scenario per Ustica (categoria dedicata ai progetti di
impegno civile) e due Segnalazioni Speciali1.
Si tratta dunque di una
gestazione complessa, per gli artisti quanto per le commissioni
giudicanti, che parte in autunno e si conclude nel luglio dell’anno
successivo, dove però ciò che avviene è solo il ripristino di un
nuovo inizio: per i progetti vincitori, quelli segnalati ma anche in
certa misura per i finalisti, si apre congiuntamente l’agognata
fase di produzione scenica e circuitazione dei lavori, sempre tramite
la rete dei teatri membri dell’Associazione Scenario.
Un’ultima notazione
tecnica spetta alla definizione di “progetto”, usata sia per le
fasi interne al premio scenario che per le performances andate in
scena a Pescara, caratterizzate da una non casuale lunghezza di venti
minuti, intesa quale misura congrua per un estratto di quella che
sarà la versione completa degli spettacoli al momento del loro
debutto ufficiale.
A tal proposito -senza
troppe forzature, per dire il vero- abbiamo strappato a Giulia Basel
e Massimo Vellaccio (direttore artistico e co-direttore di Florian
Teatro) una notizia in anteprima: molto presto le compagnie della
Generazione Scenario 2013 torneranno a Pescara per mostrarci la
versione completa degli spettacoli. L’importanza iniziatica del
“battesimo” di scena celebratosi con lo Speciale del 5 e 6
ottobre trovava d’altronde conferma nella generosa presenza di
Stefano Cipiciani, Presidente “di lungo corso” dell’Associazione
Scenario, e di Livia Clementi (Teatro Sala Umberto, Roma) membro
della commissione Abruzzo-Lazio. Erano dunque già tutti nell’aria
i migliori presagi, ad onta della scaramanzia tipica dei teatranti …
In
scena
Sabato 5 ottobre, ore 21. Florian Espace.
Valerio Malorni in
“L’uomo nel Diluvio”
Ad aprire la rassegna è
Valerio Malorni, solo sul palco per dare vita e corpo ad un agrodolce
grido di lucido dolore e solitudine generazionale, che riecheggia
note dalla più stretta e tangibile attualità. Artista poliedrico,
attore e danzatore attivo in progetti sociali e pedagogici
(Laboratori di Teatro Relazionale per
infanzia/adulti/disabilità e di Pedagogia dell’Espressione
presso l’Università di Roma Tre), Malorni decide di comprimere la
potenza del suo eclettismo dentro le forme trattenute di una tensione
sottile, che vibra ondivaga lungo i diversi momenti del suo “Uomo
nel Diluvio”, ma si mantiene inquieta anche nelle curve più
ironiche ed apparentemente distensive. La scena spoglia, esaltata
nella sua nudità dalla semplicità della luce bianca che la bagna,
mostra sul fondo una parete in cartone di mattoni stilizzati, a
comporre la forma di quella che apparirebbe una barca, secondo il
tratto minimale e denso dei disegni infantili. Come attiene alla
semiosi teatrale, sarà l’azione dell’attore a fornirci la chiave
interpretativa dello spazio e delle icone di scena, chiarendo che ci
troviamo in realtà nell’intimità brulla di una stanza da bagno e
che ciò che poteva apparire un’arca di ascendenza mitica od
archetipica è in realtà una semplice, statica vasca.
Eppure, benché
disatteso, il parallelo fra ordinarietà del presente e
spettacolarità del mito riemergerà come leit motiv del
tragico nel corso della performance, quando abbonderà la
verbalizzazione a far declinare irrecuperabilmente il registro
stilistico verso il grottesco, sede deputata per lasciar implodere la
tragicità del presente, privata d’ogni eroismo residuo nel
confronto con un passato impietoso.
L’attacco dell’azione
per contro tende ad accumulare significato procedendo per
sottrazione: sotto l’effetto sonoro di una pioggia immateriale,
l’attore entra in scena in impeccabile completo scuro gessato e
camicia bianca, i capelli elegantemente legati sulla nuca, ma non
parte allocuzione alcuna se non quella di una venata provocazione al
pubblico, più vicina in vero al disagio. L’attore resta muto ed
immobile in scena senza in ciò manifestare fragilità; la sua
postura è carica d’energia, come netti sono stati i pochi
movimenti d’ingresso nel guadagnare l’avanscena e raccogliere un
orologio da muro che giaceva su di un lato del palco. La pioggia
sonora è allora libera di riempiere il silenzio e la fissità
dell’inazione, ma come in un dipinto di Magritte i piani del quadro
aprono fessure d’infrazione contagiosa tra vero e verosimile,
prolungando lo specchio della rappresentazione su piani reiterati e
modulando in ciò la materia posticcia della finzione nella sostanza
divinatrice della creazione. La fissità ostentata dall’attore non
è statuaria e -benché impercettibilmente- mostra la sua
partecipazione al tempo, nel linguaggio tutto implicito di una
tensione micromimica nel volto e nel respiro, che il ticchettio del
grande orologio -sorretto a lungo dalla presa di mani umane viventi-
sottolinea e conferma senza tautologie. Il tempo partecipato
dall’attore non è un’entità concettuale collocata nel tempio
parallelo ed impalpabile dell’arte, bensì quello biologicamente
compartecipato dal pubblico presente in sala, in ossequio radicale al
principio del “qui ed ora” di cui il linguaggio teatrale si
compone in essenza. L’orologio in scena non è semplicemente
funzionante, a sovrapporre il suo ticchettio sulla cadenza della
pioggia, a costruire il messaggio cogente di un presente che vive
come in un conto alla rovescia, ove è in gioco la propria salvezza
alla stregua di un’arca postmoderna prima dell’ultimo diluvio
imminente; tutto questo impianto convive con una contiguità fluida
tra presente rappresentato e presente immanente che si decifra
nell’orario battuto dall’orologio, corrispondente con il tempo
reale segnato dagli orologi di spettatori ed astanti. Questo
dettaglio trasforma a ben vedere un mero elemento scenografico in un
meccanismo drammaturgico, che non si limita ovvero a commentare
visivamente il tema del tragico nel presente, ma introietta la
temporalità attuale nel farsi dell’azione attorica, riversando la
tensione tematica della performance direttamente sul vissuto dello
spettatore, accomunato all’attore dalla medesima criticità epocale
che la rappresentazione non mira più a sospendere entro la bolla
della propria breve durata.
Solo quando la pioggia
sonora sfuma nelle note della musica leggera (Bob Dylan, I
Want You), subentra finalmente l’elemento della parola nella
costruzione di un linguaggio performativo che ha però già chiarito
di non fondarsi sulla narrazione letterale, nonostante le apparenze
intime e confidenziali del monologo. Anzi, voce dell’attore e base
musicale si contendono l’attenzione dello spettatore, con
quest’ultima che non svolge il ruolo canonico di sottofondo, bensì
cresce progressivamente di volume esasperando la fatica della
comunicazione tra attore e pubblico. La lotta per la ricezione del
messaggio, porta infine l’attore all’acme del grido, in cui
nuovamente la forma estetica si fonde con la matrice drammaturgica,
per rendere il punto focale del dramma: nel trentesimo anno della sua
vita, un padre di una figlia di tre anni, un attore di mestiere, un
marito ed un cittadino precario si sente come Noè deve essersi
sentito quando la voce divina lo avvertì del disastro incombente. Ma
non esattamente come lui: «per me che non credo, è più difficile»
ripete in crescendo Malorni, finalmente vincente sulla base musicale
che si spegne, isolando nell’eco subitaneo il grido umano in
loop. Questo panorama desolato, desacralizzato -cornice per la
miseria di un tempo presente che ha disimparato a credere, o meglio
che ha imparato suo malgrado a diffidare integralmente- viene
formalizzata scenicamente nel passaggio successivo: Malorni decide di
dissacrare tutta la carica icastica del primo quadro, di spogliarla
di ogni fascino eventuale e distraente. Con l’immediatezza propria
dell’arte scenica, questa spoliazione d’ogni velo aulico viene
resa tramite la dismissione del costume di scena, con l’attore
privato d’ogni trucco imbellente e reso all’ordinarietà più
mediocre; siamo ben oltre ogni trito naturismo che ha avuto altre
stagioni, ma anche oltre ogni uso ed abuso del corpo quale strumento
ammaliante. Nel suo completo intimo bianco, l’attore non si mostra
ma semplicemente resta, ricucendo tra l’altro le fila di una
testualità ambientata in una stanza da bagno, ovvero lo spazio
dimensionale che precede per ciascuno la vestizione ed il
mascheramento propedeutico al confronto con l’esterno, alla stregua
del camerino per l’attore.
La base sonora riemerge,
ma questa volta ha il tocco domestico della campionatura: la voce
asettica di un audio-corso di lingue si combina con l’esecuzione
imperfetta dell’apprendente nell’atto imitativo del ripetere.
Prima la voce di una bimba, poi di una donna, poi di un uomo: il
quadro sintetico ma esauriente di un nucleo famigliare che inizia a
misurarsi con la necessità di emigrare per sopravvivere. La lingua
in questione è il tedesco, ovvero l’idioma dell’economia sana ma
anche della selezione economica, la cui legge austera si impone come
grammatica prescrittiva. L’effetto d’inversione ironica,
apportato dalle frasi naiv caratteristiche di un livello per
principianti, non annulla la connotazione costrittiva, secondo una
chiave che sarà mantenuta per tutta la fase centrale della
performance. L’ironia si impone, rilasciando punte di comicità
reale, unitamente ad uno smascheramento delle convenzioni teatrali
che raddoppia l’effetto già esperito con la spoliazione
dell’attore e l’utilizzo dell’orologio: Malorni preannuncia
“brechtianamente” al pubblico che la scena è da intendersi come
la stanza da bagno del suo modesto appartamento, che l’arca è la
sua vasca, che sta per partire una nuova traccia musicale (e tutto
ciò probabilmente è da ascriversi alla struttura di estratto della
performance), ma anche l’attacco della nuova scena risulta
“straniato”. Vengono infatti lette intere pagine di un libro che
giaceva di fianco alla vasca da bagno, un vademecum per italiani in
fuga che vogliano accasarsi a Berlino, di cui l’attore cita -con
rigore filologico- autore, titolo per esteso, editore, anno di
stampa, e persino prezzo di copertina.
Le possibilità offerte
dall’organizzazione berlinese risaltano da un lato le falle e le
sperequazioni del Sistema Italia, ma soprattutto la malinconia che
circonda l’immagine di una terra straniera che non si sceglie per
migliorare il proprio status, ma che si è costretti a cercare per
fuggire dal tradimento operato dalla propria patria. Il dolore
d’abbandono risuona nella traccia musicale (Domenico Modugno, Amara
Terra Mia), che questa volta però non contende l’etere alla
parola dell’attore, il quale anzi si arresta un momento per
canticchiare su di una strofa, inglobando il verso cantato nel testo
drammatico.
Lo stato di precarietà
riavvicina l’attore al lavoratore comune, ed il dramma
dell’emigrazione al tema biblico dell’arca. All’interno di
questo afflato solidale in termini semantici, il tono può tornare
duro nel finale ed affondare la lama dell’espressione netta:
rapidamente coperto da una sorta di saio da predicatore postmoderno
(che giaceva a fianco della vasca a mo’ di accappatoio) Malorni
torna ad abbrancare il grande orologio che giaceva a terra,
deconstestualizzato da una parete che non lo accoglie più, sia essa
l’immateriale quarta parete che ha avvolto gli ultimi tempi aurei
della professione attorica o quella schiettamente materica di una
dimora decaduta. Una base sonora lascia montare il ritmo di un
ticchettio che in breve si fa quasi assordante. L’attore
incappucciato, missionario del tempo, conduce la sua ricerca fuori
dal perimetro scenico. Le lancette dell’orologio ed il ticchettio
crescente ammoniscono non meno dello sguardo urgente di Malorni, che
sospende in un tempo amplificato dall’attesa il quesito finale:
resta ancora qualcosa da salvare delle nostre vite?
Sabato
5 Ottobre, ore 22 - Spazio Matta
nO (Dance first, Think
later) in “Trenofermo a-Katzelmacher”
Il cambio di sede e di
spazio scenico viene a corrispondere con un dislocamento netto di
linguaggio creativo. Passiamo dalle modulazioni vibrate
dell’espressione individuale esperite con la prima performance
all’esposizione ed esplicitazione estrema del lavoro corale offerto
esplosivamente dalla folgorante formazione nO (Dance first, Think
Later). Dieci performer di provenienza diversa, compattati in
gruppo -nella maggior parte dei casi- dalla frequenza comune della
Scuola di Recitazione presso il Teatro Stabile di Genova2.
La giovane età (si varia dalla classe ‘82 dei più anziani alla
classe ‘87 del regista, per una formazione nata nel 2010) è
inversamente proporzionale alla ricchezza ed intensità di esperienze
artistiche accumulate dai singoli, spaziando con agio dal teatro al
cinema alla fiction televisiva. La contemporaneità è la cifra
identitaria di questo gruppo e non già come mero slogan
programmatico, ma quale caratteristica non retorica che trasuda
tangibile dal linguaggio performativo. E’ quanto mostra con
evidenza “Trenofermo a-Katzelmacher”, progetto premiato
con una Segnalazione Speciale a Scenario 2013.
Mentre il pubblico cerca
ancora una sistemazione stabile in sala, gli attori sono già in
scena, rivelati e svelati senza filtri dall’illuminazione generale,
che li confonde nella commistione iniziale ad una generalità di
presenze, tra spettatori, tecnici ed organizzatori. Ma l’azione è
già in atto, il linguaggio già ribolle nel farsi della scrittura di
scena, le tipicità dei personaggi creano già micro-conflitti. Gli
attori improvvisano movimenti da soli o con i partner di scena, senza
con ciò chiudersi dentro lo schermo dell’interpretazione:
sbirciano in platea, con allocuzioni intermittenti ma dirette ai
singoli spettatori, sghignazzano, canticchiano, si atteggiano da
bulli, scattano foto con il telefono. Dietro la scenografia vivente
creata dagli attori, si notano gli elementi materiali della scena: è
prepotente la presenza di un motorino sul lato sinistro, stagliata su
di una generalità anonima di oggetti di risulta che si accumula sul
fondo, tra lamiere, insegne pubblicitarie, lattine di birra, catini e
sedie di plastica reclinate assieme ad un ombrellone sbilenco. Al
centro della scena, a terra, nel tramestio disordinato degli attori,
trovano posto con inusitata cura nove caschi da motociclista.
Immediatamente il buio: i
caschi rivelano la presenza di led che irrorano una luce
sintetica azzurrina; la scena si veste di una raffinatezza pop.
Quasi marziale, la voce tonante di uno degli attori ritma tre tempi,
al termine dei quali il gruppo risponde all’unisono e compatto, a
metà strada tra branco selvaggio e gang di strada,
richiamando ora il rituale haka dei Maori ora la prosaica
coreografia di ultras da stadio. L’effetto strobo che si
sovrappone, favorisce questa suggestione sinestetica e polisemica,
sintetizzando nell’azione essenziale una coralità di istantanee
combinatorie: subentrano nella fruizione interferenze dal traffico
caotico suburbano, la velocità frugale degli autogrill, il pogo dei
disco-club e dei concerti. La sequenza è a tutti gli effetti
coreografica, alternando momenti di ritmo intenso a momenti
rallentati e sincopati, componendo una pantomima seducente pur fatta
di gesti volgari e di sfida, ostentazione anatomica, moti di
aggressività, gravità corporale, terrenalità. In una parola: pop,
in quanto a priorità del linguaggio visuale ed iconico, che non
esaurisce né esclude una prolificità lirica, per contro capace di
riscoprire il seme dell’estetica nei terreni marginalizzati
dall’arte ufficiale, colta ed elitaria.
La rivendicazione del
presente e dell’appartenenza ad esso -al lordo di tutte le
criticità- è proprio ciò che caratterizza sul piano tematico la
performance degli nO: «E’ il momento giusto / il momento
nostro […] Ringraziamo: la crisi / che ha creato noi. Noi / per la
nostra scelta / il sud che ci ha fatti. Accussì.» “Trenofermo
a-Katzelmacher” detiene capacità di analisi al pari dei lavori
d’impegno sociale e civile, senza dover necessariamente passare
attraverso la rivendicazione di un engagement titolare del
lavoro creativo. In aggiunta, la profondità critica rende centralità
protagonistica non al documento ma alla poetica dell’attuale, in un
magma vitale che ospita sia la denuncia del negativo che l’unico
minerale disponibile per la costruzione di speranza e di alternativa.
In una parola (più un aggettivo): talento puro.
Sul piano formale ed
estetico, l’ingrediente portante della performance è dato dalla
sonorità invadente di una meridionaltà spuria, che miscela accenti
e prosodie irregolari dalle periferie campane, sicule e calabresi,
spettacolarizzandole nella forma di una phoné musicale e
principalmente significante. Parola che rapisce, persuade e di nuovo
mostra la sua forza ispiratrice ad onta della banalità del sermo
quotidiano o del lessico giovanile che fermenta nei non luoghi
suburbani. In questo senso, verrebbe da definire dialettica più che
dialettologica la lingua degli nO.
La potenza visuale della
sequenza coreografica, lascia improvvisamente spazio ad un quadro di
sospensione lenta, di attesa inane, mentre il sonoro tipico
dell’azienda ferroviaria sciorina la giaculatoria laica di toponimi
inusitati, tracciati dai treni regionali lungo le rotte nel Sud più
profondo. Il vuoto viene riempito fatalmente di piccole oscenità e
mutue umiliazioni gratuite, di aggressività immotivata che parte
autonomamente dagli arti, come nella geniale sfida a calcio balilla
tra due bulli, in cui il biliardino scassato e privo di palline
diventa una sorta di protesi limitante in un braccio di ferro
decervellante e senza vincitori possibili. Ma nuovamente il vuoto si
ribalta e torna ad essere forma madre, materiale significante,
combustibile d’energia: la musicalità verbale incontra la musica,
il corpo incolto asseconda di nuovo il ritmo, crea la danza dalle
viscere della terra che calpesta.
Prima danzare, solo poi
pensare: è questo l’ordine naturale. Così d’altronde recita il
messaggio criptato che si nasconde dietro il nome della formazione
(nO, quali iniziali di natural order, in omaggio ad un
passaggio di Waiting for Godot, relativo al bizzarro
comportamento corporeo e verbale di Lucky). Si tratta in sintesi del
messaggio dissacrante rivolto dagli nO all’establishment
culturale, accademico ed intellettuale, a tutte quelle forme di
applicazione dell’intelligenza e della creatività che necessitano
strutturalmente la cerebralizzazione, indi la lamentazione e la
protesta deresponsabilizzante per attivarsi e dipanarsi
produttivamente. Ecco perché il trash stilizzato di
“Trenofermo a-Katzelmacher” non si limita a produrre
divertimento o dissacrazione, abbattendo tutte le categorie di
seduzione estetica e critica sociale e celebrando soprattutto il sole
nuovo dell’oggi, l’inizio rituale di una nuova era che è già in
atto. Non si tratta di semplice abilità o di esuberanza giovanile
che dovrà farsi lungo ben altre sfide alla ricerca di un metro più
maturo e pettinato: la rarità di un messaggio artistico ispirato
alla rivendicazione ed esaltazione del presente ha -almeno nella
tradizione italiana- il valore salvifico di una cellula staminale.
Almeno quando, come nel caso in specie, il risultato presenta tutti i
crismi della compiutezza in termini scenici ed artistici.
Gli attori scimmiottano
il loro talento di scuola in fermo immagine da autoscatto inebetito,
genuflessi al nume tutelare dell’onnipresente vasetto di gel blu
elettrico per capelli; al pari, la spettacolarità estetizzante delle
coreografie di gruppo riesce ad alimentarsi di movimenti semplici,
quasi ordinari e comuni. Il totem postmoderno rappresentato dal
motorino si attiva finalmente sull’angolo della scena, mostrando
una ghirlanda di lucine a festa irresistibilmente pacchiane, mentre
l’asta di un microfono trasforma il ciclomotore in un pulpito
presso il quale i singoli personaggi si alternano velocemente in
assoli, tra gli estremi diametrali di un rap reso
incandescente dalla sonorità siculo-calabrese e la scabra
comunicazione privata da messaggeria vocale, per chiudersi infine con
un proverbiale inno neomelodico in chiave rigorosamente partenopea.
La comunicazione
endogenetica del microcosmo meridionale viene infranta
improvvisamente dall’arrivo di uno straniero, secondo l’escamotage
ormai classico dell’entrata in scena dalla platea, che però qui
ripristina il suo senso drammaturgico specifico. Lo straniero si
esprime timidamente in francese, accompagnato dal suono caldo di un
organetto a mano che pende dal suo collo, riuscendo a guadagnare solo
l’irrisione ed il cannibalismo istintuale del branco annoiato,
ricompattato dalla sorpresa dovuta all’alterità del nuovo arrivato
ed alla fragilità sovraesposta della sua individualità. Eppure, in
un irrinunciabile coup de théàtre, il pulpito motorizzato
concede anche a lui un momento di illuminazione, in cui il suo
discorso precario si veste di una lingua italiana impeccabile e
finanche di marca letteraria, che la Babele dialettofona precedente
rende ora quasi straniera ed esotica all’ascolto. E’ lui il
“Katzelmacher” di cui si vociferava in paese tra uno sbadiglio ed
una baruffa, ovvero l’immigrato, l’intruso, il contaminatore di
sangue e di razza, che il nome astruso maccheronicamente rimasticato
amplifica con distorsione straniante, sprezzante e minacciosa.
Tecnicamente il termine funge da citazione, visto che il copione
della performance si basa sull’impianto del dramma Katzelmacher
di Fassbinder (1968), basato sulle vicende aspre che attendono un
immigrato del sud europeo in Germania; in ogni caso l’ipotesto
rimane un mero punto di partenza per un lavoro autonomo modellato
fortemente dall’esercizio in scena e che lacera continuamente il
copione progressivamente fissato. E’ curioso notare lo scambio
simmetrico di prospettive con la performance di Valerio Malorni: lì
il tema dell’emigrazione di matrice economica viaggiava dall’Italia
alla Germania, mentre in “Trenofermo” un testo tedesco
sull’immigrazione viene manipolato per dare voce ad una polifonia
fortemente nostrana, con la prospettiva italica giocata in chiave
glocal, come si usa dire.
Il rapporto dialettico
tra testo e scena per l’attribuzione di paternità su di uno
spettacolo è questione annosa; in tal senso, il lavoro di
riscrittura degli nO ribadisce in maniera quanto mai
persuasiva come la messinscena sia sempre un’opera di
sovrascrittura scenica, anche laddove il testo venga maneggiato con
cura filologica. Ciò detto, sorprende come un lavoro quale
“Trenofermo a-Katzelmacher”, che mostra una profonda
personalità registica, sia il risultato di una co-regia osmotica
(Dario Aita, titolarmente regista e dramaturg oltre che
attore, coadiuvato a più livelli da Elena Gigliotti, titolarmente
autrice delle coreografie, oltre che attrice) aperta al contributo
collettivo costante nelle sessioni di prova sotto forma di
improvvisazione attorica. Inutile chiederlo a loro: con buona
probabilità ci risponderebbero candidamente che si tratta di un
“ordine naturale”. Quel che appare più chiaramente è che
–qualunque sia la formula o il dosaggio segreto- gli nO
danno l’impressione di inventare una categoria teatrale tutta
nuova, tutta odierna e sovra-genere, come avviene in picchi isolati
nella storia del teatro quando un’epoca riesce a coagulare
spontaneamente nel suo stampo specifico, perché senza ricorso alla
citazione, alla parodia o alla riscrittura effettiva di modelli
precedenti, la loro lingua scenica sa leggere e restituire potenza
epica al tempo quotidiano ordinario, guardandolo in controluce, in un
atto di irraggiamento possibile solo a chi accetta la superficie.
Domenica
6 ottobre, ore 17:30 - Florian Espace
Serena di Gregorio in
“Cinque Agosto”
Gioca in casa Serena Di
Gregorio, di origini limpidamente abruzzesi, ma in realtà la sua
presenza a Pescara rappresenta un ritorno a radici fattesi piuttosto
lontane. La vocazione attorica l’ha condotta infatti quindici anni
fa a Milano, dove si è formata prima presso la Scuola Internazionale
del maestro Kuniaki Ida, per poi proseguire gli studi nell’Accademia
Nico Pepe di Udine, dopo un passaggio attraverso il linguaggio del
teatro-danza alla Paolo Grassi. Segue quindi la lista delle
collaborazioni illustri in ambito professionale, da Emma Dante alla
“meglio gioventù” del teatro e del cinema italiano (Andrea
Collavino, Giuseppe Battiston, Massimiliano Speziani, Massimiliano
Cividati). Il dettaglio biografico ci porge il destro per una
notazione generale sull’aspetto apolide che spesso contraddistingue
il percorso degli attori: è un dato che trova conferma per la
maggior parte dei protagonisti di Speciale Scenario 2013, quasi
sempre desiderosi -prima che operativamente bisognosi- di uno
scossone spazio-culturale per potersi sintonizzare con la radice più
pura del proprio estro e lasciarla emergere in massima libertà, con
il bagaglio tradizionale ed ancestrale a fare da valore aggiunto su
di una base ecumenica, anziché fungere da linea per il proprio
orizzonte artistico o da cavallo di battaglia.
Ciò è quanto mai vero
nel caso di Serena Di Gregorio, il cui “Cinque Agosto” ha
rappresentato sul piano personale la ricezione di una voce intima ma
decisiva in termini di approccio al lavoro creativo: dopo un’intensa
ed entusiasmante esperienza professionale di compagnia e di teatro
inteso quale mestiere d’equipe, è subentrata l’esigenza
dell’espressione individuale. Tale genesi investe di particolare
interesse l’osservazione delle caratteristiche con cui l’attrice
è riuscita a concretizzare un vero e proprio debutto nel linguaggio
teatrale monologico, il che non riguarda la sola relazione con la
scena e con il pubblico ma anche la dimensione autorale di scrittura
e di ideazione progettuale. E qui si è manifestata con nettezza la
presenza della memoria e delle radici come patrimonio creativo di
immagini, sonorità, strumenti per la produzione di una proposta
artistica personale ed autentica. Sul piano metodologico il testo di
“Cinque Agosto” fonda su di una ricerca condotta sui
territori natali, tramite una lunga serie di interviste rivolte ai
cittadini più anziani; individuato ovvero il canale della memoria
come fonte progettuale, l’artista non ha diretto tale inclinazione
nei canali introspettivi personali, donando per contro oggettività e
superindividualità al tema prescelto. Si tratta di una
considerazione solo apparentemente oziosa, perché detiene un
principio specificatamente teatrale, ove cioè ogni frammento
tematico o intuizione vengono elaborati ed esplicitati, in maniera
simile a quanto avviene nelle arti visive, differentemente dai
processi che contraddistinguono le discipline eminentemente
letterarie, rispetto alle quali la drammaturgia si pone in soluzione
di contiguità senza sovrapporsi pienamente. E’ proprio in questi
incastri ed in questi snodi posti alla base di un progetto teatrale
che si vince o perde la partita dell’autenticità piena, in virtù
di un linguaggio artistico peculiare quale è il teatro, sospeso su
equilibri delicati tra saperi artigianali ed alchemici plurimi, che
spesso però tendono a supplire singolarmente in prove di
mattatoriale ma settoriale bravura ciò che dovrebbe farsi come un
gioco di vasi comunicanti tra cui distribuire con senso parco la
linfa energetica partecipata dal pubblico.
Tornando a “Cinque
Agosto”, Di Gregorio vince inequivocabilmente la sfida della
teatralità pura e limpida, componendo con cura puntinistica un
quadro di suggestioni rammemorative che potevano instradare
scivolosamente verso la sterilità scenica, la narrazione
cronachistica o l’assolo declamatorio. Il rischio viene scongiurato
da Serena con intuito sottile, che di certo non si improvvisa ma che
forse neanche si impara del tutto, quello della misura e del senso
per le proporzioni cui si accennava poc’anzi, quali regole
strutturali ma non scritte di un teatro che sia ancora pulsante, come
alternativa a quello che Peter Brook definiva “mortale” senza
però necessariamente pagar debito ad un certo bagaglio etnografico
ormai depauperatosi anch’esso per consunzione ed abuso, in funzione
di ingrediente vivificante aggiunto invano in cima alla più sterile
repertorialità.
In “Cinque Agosto”
il talento caleidoscopico dell’attrice si fa strumento a
disposizione di un progetto che non ha cercato soluzioni o trucchi
rapidi, ma la via della “fermentazione” lenta e naturale,
raggiungendo infine quella semplicità così rara al teatro, pur
possibile solo al fondo di un esercizio attorico totalizzante (come
nella migliore tradizione di ricerca, da Stanislavskij e Copeau a
Mejerchold e Grotowski). E’ il risultato di un’ operazione
trasformazionale rispetto alla massa di testimonianze raccolte con
tatto da Di Gregorio nel mondo degli anziani, in quella dimensione
temporale dove il ricordo non è un esercizio ma l’impasto stesso
che riempie i singoli atti, rimpiazzando ciò che nei giovani è la
progettualità ed il senso futuribile del presente. Da attrice,
Serena carpisce sì le storie e le espressioni, ma principalmente
sugge l’essenza del ricordo, il suo mood tipizzante per
riprodurlo non già imitativamente bensì all’interno di una
ciclicità silvana, come miele da pollini o –in termini più
contigui al linguaggio performativo- come il blues dal lavoro
bracciante. Parliamo di universali strutturali al lavoro creativo in
teatro, ma questo non rappresenta una fuga o rimozione generalista
rispetto al soggetto specifico che pur tarda a farsi raccontare,
bensì avviene spontaneamente perché la performance di Serena Di
Gregorio ricongiunge proprio con i processi originari su cui fonda la
produzione del linguaggio teatrale.
Già prima dell’inizio
dell’azione, la scena mostra la presenza di un progetto completo,
con un impianto scenografico che pone immediatamente al di fuori dei
perimetri del teatro d’attore. L’elemento più veloce nel
guadagnare lo sguardo dello spettatore è una lunga fila di lucine da
festa, sapientemente semplice nella linea morbida della sua
disposizione, come cornice alta di una pedana quadrata rialzata, che
lascia intuire l’impiego di botole per effetti scenici, ma
presagisce anche lo spazio residuale concesso al movimento della
performer. Lei entra in scena con passo deciso e le linee oblunghe
della sua fisicità giocano inizialmente ad intarsiare un personaggio
atemporale, una bambina di provincia o una adolescente naiv,
dall’eloquio torrenziale contrappuntato da piccoli tic compulsivi e
repentini switch dialettali. Il tema del racconto è la festa
locale del cinque Agosto, ovvero quella intitolata alla Madonna della
Neve, che secondo la tradizione fece nevicare in una lontana estate
per risolvere il problema della siccità che assetava inesorabile
un’intera comunità, campi e armenti compresi. Il leit motiv
che muove le ruote alla macchina del racconto è rappresentato
dall’amica del cuore della protagonista, una figura tutta verbale
che funziona da alter ego dialettico: Lina –così si chiama
l’amica- è bella, già ben formata, piace a tutti gli uomini e
recentemente si è persino fidanzata (!), il che chiaramente è un
altro miracolo realizzato dalla Madonna. Perché in fondo nel mondo
ovattato della protagonista -come anche nello sfondo soffuso di
un’Italia agreste e genuina, quale è quella fermata dal ricordo
degli anziani- tutto ciò che accade è volontà del cielo, ma un
cielo antropomorfo simile ad un deuteragonista teatrale,
personificato nelle sagome delle icone patronali. E allora è lecito
chiedere alla Madonna della Neve di far resuscitare anche un tacchino
investito in un incidente, mentre la giocoleria scenotecnica proietta
magicamente in aria un getto morbido di piume candide. Ma è solo una
delle evoluzioni pirotecniche prodotte da un’effettistica di scena
sincronizzata con precisione rigorosa. Questo punto instrada alla
considerazione dei vari livelli che partecipano alla composizione di
“Cinque Agosto”: da autrice, Serena Di Gregorio è abile
a selezionare gli aneddoti ascoltati e ad inanellarli nel racconto di
una ragazza allampanata, che nasconde -o meglio presente3-
l’ombra di un trauma nei suoi picchi intermittenti ed
incontrollati; da attrice è magistrale nel mimetizzare tracce di
energia arcana nell’umore dolciastro dell’ambientazione
ante-guerra, così come è abile nel comprimere l’eleganza
connaturata alla sua figura entro le pose artatamente goffe del
personaggio, senza in ciò cadere nel verso stereotipato della
macchietta femminile scolasticamente deformata verso un effetto
semplicisticamente grottesco, comico o favolistico. Nella sua
performance non c’è nessun deja vu e nessun eventuale
“effetto Amelie”, perché il tocco sospeso in “Cinque
Agosto” sa aprire alla dimensione rara e scenicamente ardua
dell’ineffabile, dove albergano le note per nulla leggere del
numinoso e del perturbante. Ma l’elemento che va sottolineato
maggiormente è la prova che Serena Di Gregorio fornisce anche come
regista, riuscendo a comporre una partitura scenica in cui
armonizzare la brillantezza del testo e la maturità attorica da lei
raggiunta; a ben vedere, si tratta del lavoro che presenta il
progetto scenografico più compiuto e completo, ove ogni elemento di
scena partecipa anche solo minimamente ai vari momenti e mutamenti
dell’azione, uscendo da una presenza puramente iconica, decorativa
o di pura ambientazione, per farsi invece macchina viva della
performance unitamente all’attrice. Il che, in termini
eminentemente nozionistici, richiama alla mente gli esperimenti
costruttivisti delle avanguardie sovietiche, tramite cui appunto si
imponevano in maniera definitiva il teatro di regia e la figura del
regista.
Domenica
6 ottobre, ore 18:30 – Spazio Matta
Collettivo InternoEnki
in “M.E.D.E.A. Big Oil”
ll gravoso compito di
chiudere senza flessioni la tetralogia di Speciale Scenario 2013
tocca alle spalle larghe e numerosissime del Collettivo
InternoEnki, interessantissima formazione attiva dal 2010 che
raccoglie rappresentanti da quasi tutte le regioni italiane fino ad
un totale di oltre venti attori. Il lavoro proposto è “M.E.D.E.A.
Big Oil”, che con una vera e propria inchiesta sulle
conseguenze delle trivellazioni petrolifere in Basilicata si
aggiudica il Premio Scenario per Ustica, in riconoscimento
dell’impegno civile alla base del progetto. Ciò sembra porsi in
antinomia formale con la definizione di «teatro in-civile» che il
Collettivo ama rivendicare nel proprio manifesto
programmatico, ma si tratta appunto di questione puramente nominale
visto che l’etichetta provocatoria mira in realtà ad intendere un
approccio che rifiuta ogni forma di deferenza verso lo status quo e
verso un’istituzione teatrale che si auto compiace in un ruolo
elitario, passatista, lontano dall’oggi e dalla condivisione
partecipata con la comunità civile. La ricercatezza verbale
rispecchia d’altronde un tratto tipico di Terry Paternoster
-pluripremiata drammaturga oltre che regista ed attrice, attorno alla
cui azione ha preso vita il Colettivo InternoEnki- con sede
operativa a Roma, nella cosiddetta Zona Rischio di Casal Bertone.
Proprio nel momento in cui la situazione economica epocale invita o
intima alla produzione di lavori di basso profilo in termini di costi
in campo teatrale e non solo, diviene quanto mai giusto e necessario
-secondo Terry- lavorare in gruppo e ragionare per grandi obiettivi,
senza rinunciare a riconoscere il valore rivoluzionario dei piccoli
gesti, quando è in gioco la disobbedienza nei confronti di un
«Sistema che ci vuole tutti soli, deboli e tutti contro tutti.»
In questo senso, la
passione (in)civile che anima il progetto teatrale del Collettivo
chiarisce in partenza di voler superare ogni forma di relativismo,
per fungere invece da cartina tornasole del presente e soprattutto
per proporsi come strumento operativo della storia nel suo farsi; un
tale segno trova conferma simbolica nella coralità di provenienze
diverse co-presenti all’interno di InternoEnki, che
impedisce una marca regionale o solo zonale imponibile sulla
produzione artistica del gruppo4.
Il presupposto investe di particolare interesse motivazioni e forme
che riguardano la produzione di “M.E.D.E.A. Big Oil”, che
per contro nasce come lavoro di denuncia di una situazione
patentemente specifica, conferendo una altrettanto specifica
ambientazione e codificazione linguistica: come accennato, il
contesto è quello della Val d’Agri lucana, terra riemersa
repentinamente all’attenzione da una forma di rimozione mnemonica
generale, quale sede di un potenziale tesoro energetico nazionale
rappresentato dai giacimenti petroliferi vi si concentrano. Dunque
dalla prospettiva di chi si avvale del sistema ufficiale
d’informazione, la Basilicata è uscita luminosamente da un annoso
anonimato, divenendo anzi immagine di una terra fertile, sana e
felice, polmone lussureggiante di ricchezza. Ma è proprio questo
l’ingranaggio in cui intende inserirsi il teatro incivile di
InternoEnki, quale strumento di contro-informazione senza con
ciò depotenziare l’espressività artistica del lavoro creativo; la
teatralità viene anzi riscoperta e rivendicata come strumento
sociale potenzialmente più forte rispetto alla medialità ordinaria,
in virtù del suo valore aggiunto in termini di capacità aggregante
e di suggestione, che laddove esercitate con etica e coscienza
possono servire ad iniettare significato ai crudi fatti ed alle cifre
sterili della cronaca.
Ritroviamo dunque uniti
dall’urgenza del presente quei poli che la scolastica più
grammaticale si ostina a presentare come estremi incomunicanti della
creazione teatrale, ovvero l’emozionalismo e l’anti-emozionalismo,
o anche l’immedesimazione e lo straniamento. Sul terreno operativo
del palcoscenico fortunatamente ogni stilema di categoria stinge
rispetto all’utilità ed alla finalità dello spettacolo da
costruire, che si avvantaggia dalla ricchezza collaborativa di quanti
più contributi disponibili. L’operatività del mestiere teatrale,
come già emerso in precedenza, conduce sempre ad una trasformazione
pragmatica delle nozioni teoretiche; anche il collettivo InternoEnki
è costituito d’altronde da artisti di formazione rigorosamente
accademica, animati da una consapevolezza artistica elaborata negli
anni tramite lo studio, ma diretta nel segno dell’indipendenza e
dell’autonomia espressiva. Così, in “M.E.D.E.A. Big Oil”
sono riconoscibili gli innesti da una classicità e pre-modernità
analizzata con scandaglio appassionato, ma rigiocata a favore
dell’oggi e della sua visibilità. Specularmente al lavoro di
Serena Di Gregorio, il ricordo avvolge il passato di un candore
generalista che lascia però orfano della necessaria attenzione il
presente; il contributo specifico del soggetto elaborato da Terry
Paternoster focalizza lo sguardo sulla responsabilità politica che
un atteggiamento apparentemente innocuo come questo finisce per
incubare, preservare e tramandare perniciosamente. La volontà divina
imperscrutabile è la fonte che manda dal cielo ogni cosa che accade,
escludendo la realtà da ogni possibilità umana di trasformazione ed
esimendo gli individui e le collettività dall’azione.
C’è bisogno dunque di
tragedia per restituire il presente alla sua sostanza in divenire,
similmente a quanto rilevato a margine della prestazione di Valerio
Malorni; ma qui oltre al sentimento tragico si decide di “scomodare”
in blocco le forme della tragedia classica, per riascoltare
l’esplosione di un grido materno sul sangue del figlio, osservarne
la vibrazione corporea e nervosa, dove appunto non può arrivare la
documentazione giornalistica, il resoconto e nemmeno l’immagine
rapida dell’informazione massmediatica, inflazionata per
sovrabbondanza e per effetto di assuefazione. Terry è d’altronde
schietta su questo terreno: l’inchiesta da lei condotta lungo
l’arco complessivo di due anni a suon di interviste registrate con
cittadini, studiosi, esperti, tecnici, operatori etc. avrebbe potuto
condurre in maniera del tutto naturale alla produzione di un libro,
ma a risultato ottenuto si sarebbe trattato dell’ennesimo meritorio
volume di giornalismo shock, mimetizzato con garbo e con
plauso irritante dagli addetti ai lavori, rimanendo confinato negli
ambienti angusti dell’editoria. Il linguaggio teatrale torna dunque
a ripristinare le peculiarità esclusive che lo avevano reso vetrina
unica ed appetibile per filosofi, romanzieri, pittori e scultori tra
Settecento e primo Novecento, in virtù della suo contatto diretto
con il pubblico collettivo. E’ pur certo che i tempi sono cambiati
da allora e che il pubblico odierno viene inseguito da un nuvolo
plurimo di offerte e linguaggi accattivanti, ma –come già
accennato- il dato che emerge da “M.E.D.E.A. Big Oil” per
tipologia del lavoro prodotto sembra parlare di un’esigenza di
teatro tout court, come zona e dimensione di analisi secondo
parametri irreplicabili, che la sfolgorante profferta tecnologica
rende paradossalmente più rara, preziosa ed insostituibile. La
riprova migliore viene dall’onda emozionale che si è riversata
sugli attori di InternoEnki al termine della performance: il coro
greco richiamato dal blocco unito degli attori, privati d’ogni
elemento scenografico, non allontana la partecipazione né
l’attenzione del pubblico, grazie anche alla connotazione popolare
e dichiaratamente buffonesca che Terry Paternoster imprime alla
recitazione. Differentemente dalla polifonia spuria spettacolarizzata
dagli nO, qui la lingua deve coagularsi in un codice unitario
compatto come voce identitaria del popolo-coro, la cui struttura
collettiva non diventa mai catena solidale bensì solo camera di
spersonalizzazione. Così gli attori di InternoEnki, accomunati
unicamente dal fatto di non essere lucani, hanno introiettato suoni e
modi del dialetto riferibile alla Val d’Agri, per comporre
principalmente l’immagine di un territorio, la terra di Basilicata,
odierna Medea tradita da un amante straniero. Ma se appare chiaro che
il fedifrago Giasone venga a rappresentare l’Eni e le
multinazionali del petrolio (che promettevano lavoro e sviluppo,
producendo invece impoverimento e morte5),
resta da scoprire la collocazione esatta della figura di Medea in
questa affascinante riscrittura del mito, perché l’eroina tragica
in questione non è solo l’amante tradita o la maga barbarica, ma
soprattutto colei che sopprime i propri figli quali frutti di un
amore negato. E’ qui che avviene il giro di vite più profondo sul
piano drammaturgico ed emozionale: come nella migliore tradizione
tragica greca, il sangue o l’atto violento sono sottratti alla
vista del pubblico, accompagnato alla catarsi dal solo grido di
dolore di chi viene soppresso. O di chi resta, sembra rilanciare
Terry Paternoster con il suo finale impattante, contorta in proscenio
nel singhiozzo di una consapevolezza materna tardiva, coperta dal
frastuono gioiosamente ebete del popolo stolto. Medea è la terra
madre che avvelena i suoi figli, ma prima dei residui tossici
sversati agisce la mistura assassina di una cultura fintamente
virtuosa, rassegnata ed obbediente, smascherata nella sua essenza
dalla quiddità verace della maschera teatrale.
Sipario!
Una considerazione
conclusiva va spesa per commentare nel modo più trasparente
possibile l’incredibile bagno di pubblico dispiegatosi in occasione
di entrambe le giornate di Speciale Scenario 2013, nonché
l’attenzione con cui i singoli spettacoli sono stati osservati e
recepiti. E’ giusto dunque parlare anche della qualità d’eccezione
del pubblico, oltre che di quella degli spettacoli.
L’utilizzo di
quest’ultimo termine non è casuale perché intende sottolineare
l’assoluta congruità e fruibilità dei lavori anche nella misura
parziale di un estratto di 20 minuti. La sfida è ora quella di
mantenere la medesima intensità anche lungo i tempi insidiosi della
durata piena, ma si tratta di una sfida affascinante e che già crea
interesse, attesa e piena fiducia.
Va inoltre sottolineata
l’omogeneità della cifra artistica formidabile di tutti i lavori
osservati, al di là dell’esito del concorso: un plauso particolare
va dunque ai due progetti finalisti, penalizzati unicamente dalla
concorrenza difficilmente replicabile di un’annata memorabile.
Qualità artistica ed
affluenza di pubblico fanno da contrasto ad un momento di difficoltà
economica generalizzata, che sentenzia da tempo campane a lutto per
gli ambienti culturali ed artistici; la domanda di aggregazione,
cultura e teatro dimostra a ben vedere di rispondere puntuale
all’appello nel momento in cui la sfida della qualità viene
rimessa nelle mani di giovani professionisti, non già in virtù di
un presunto slancio giovanilista fine a se stesso, ma perché solo
dalle nuove leve può venire e viene uno sguardo pienamente
partecipato sulla situazione attuale, quindi la formulazione di un
discorso artistico completo, capace di includere ogni tipologia di
pubblico, per gusto stilistico e fascia generazionale. Non è un caso
che, al di là delle categorie, tutti gli spettacoli proposti hanno
mostrato la tensione di un forte impegno civile.
Infine, sul piano
estetico va rimarcato come tre dei quattro lavori presentati abbiano
scelto l’elaborazione di un linguaggio di marca fortemente
regionale, pur in tempi di forte globalizzazione. Senza spingersi
troppo in là nell’ermeneutica specifica, questo data segnala
un’ansia riformatrice da parte delle nuove leve rispetto ad una
visione declamatoria ed accademica del teatro, ma soprattutto
manifesta nella personalizzazione audace un’assunzione di
responsabilità assolutamente convinta per le sorti future dell’arte
scenica.
Paolo Verlengia
1
Per completezza d’informazione, la Generazione Scenario 2013,
ovvero la rosa dei progetti/artisti premiati a Santarcangelo il 18
Luglio, risulta così composta: “Mio Figlio era come un padre per
me” di Fratelli Dalla Via (Premio Scenario ) – “M.E.D.E.A. Big
Oil” di Collettivo InternoEnki (Premio Scenario per Ustica) –
“Trenofermo a-Katzelmacher” di nO Dance first, Think later
(Segnalazione Speciale) – “W (Prova di Resistenza)” Beatrice
Baruffini (Segnalazione Speciale). Una menzione aggiuntiva è stata
inoltre assegnata ad Elisa Porciatti per il progetto “Ummonte”.
2
Completano la formazione un’attrice diplomata al Piccolo di Milano
ed un’attrice diplomata all’Accademia Nazionale Silvio D’Amico.
3
Si fanno largo, sempre con grande equilibrio di toni, nella parte
centrale della performance il tema della guerra e l’incubo
tangibile dei bombardamenti.
4
La stessa Terry Paternoster, di origini meridionali nasce a Milano
ma si forma ed afferma professionalmente a Roma, dove reperisce gli
attori di InternoEnki provenienti da luoghi diversi ma incontrati
lungo la strada di un percorso formativo simile.
5
Come recita il programma di sala dello spettacolo, la Basilicata
produce l’80% del petrolio italiano, mantenendosi la regione più
povera d’Italia e con il più alto incremento di patologie
tumorali. Nel titolo, il nome di Medea è volutamente puntato, come
riferimento all’acronimo recentemente usato dall’Eni per
pubblicizzare il proprio Master in Management ed Economia
dell’Energia e dell’Ambiente.
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