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VETRANO E RANDISI: UN FIORE NEL GELO
L’infaticabile duo regala a Pescara una performance indimenticabile, nel ricordo di Franco Scaldati

Forse non poteva esserci cornice migliore e forse tutto doveva andare proprio così come è avvenuto. L’otto dicembre, giorno che apre formalmente al Natale nel rito fanciullesco dell’albero e degli addobbi, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, leggende viventi del teatro italiano, lungo il loro girovagare indefesso che ne fa i depositari dell’antico capocomicato, hanno fatto tappa a Pescara, nell’ambiente raccolto del Florian Espace, con un’incantevole messinscena di Totò e Vicè, delicatissimo ed immaginifico testo di Franco Scaldati, siciliano come loro, scomparso da pochi mesi senza troppo clamore e qui celebrato nel modo più schietto attraverso la semplicità e l’intensità del suo teatro.
Forse è stato finanche complice il freddo che in quei giorni ha mostrato sul litorale pescarese per la prima volta nella stagione il morso verace dell’inverno imminente, quasi a voler meglio reggere il gioco ai cappottonacci logori che ingobbiscono in scena le sagome di Vetrano e Randisi nei panni di Totò e Vicè, rendendo ancor più tattile il calore costantemente ricercato dalla loro dualità solidale ed inscindibile. “Impensabile” è forse il termine più pieno per descrivere il legame tra queste due presenze animate dalla penna ispirata di Franco Scaldati (coinvolto malamente in questo involontario gioco di accostamenti verbali tra freddo e calore), perché i suoi Totò e Vicé non possono né vivere né pensare la vita senza il dialogo con l’altro. Senza l’altro non ricorderebbero nemmeno chi sono individualmente, così come per contro insieme è possibile persino attraversare il ponte tra la vita e la morte e tornare indietro a raccontare, ancor più uniti di prima. E’ questo che accade ad un certo punto dello spettacolo: Vicé è morto, o meglio è Totò a dirlo, ma questo è sufficiente a Vicé per mettersi in viaggio alla scoperta dell’aldilà o semplicemente dell’altrove, perché cos’è l’esistenza se non quello che diciamo, e cos’è il mondo se non quello che vogliamo vedere e cos’è infine che noi vediamo se non quello che già conosciamo? Ma Totò e Vicé non sono le creature intellettualmente raffinate, create ad arte per dar voce ad un testo raziocinante o nichilista: per contro, ogni spunto filosofico o meditativo è contenuto all’interno di un involucro primario e luminoso, in cui l’infinito incolmabile dei quesiti umani non rimanda mai ad un senso di dispersione, bensì di ricchezza costantemente rimpinguata, come la lunghezza gelida di una notte invernale diventa -o resta- la durata munifica di uno spettacolo da guardare. La relatività del punto di vista umano si volge in una sorgente infinitamente trasformabile, che permette a Totò in un altro momento dello spettacolo di avvistare stelle personali e di spostarle con un soffio. Allo stesso modo è formidabile lo sketch in cui i due, si impegnano vanamente a non parlare più, dovendo in ciò far uso di mani e braccia come neofiti in apnea, per arginare una voce che è respiro prima che parola.
Più in generale, le mille domande che Totò e Vicé si lanciano come disegni inani, senza frustrare minimamente il pubblico per l’assenza virtuale e talvolta materiale di risposte, ripristina il senso intatto dello stupore, che non è assenza di certezze ma riscoperta libertà di pensare ed immaginare illimitatamente. Pensare, immaginare, ovvero vedere e parlare... e che cos’è l’esistenza se non quello che diciamo e cos’è il mondo se non quello che vediamo? Già, ma con Totò e Vicé viene spezzato l’ultimo anello della catena, quello più importante, capace di trasformare la libertà in schiavitù della mente: no, non è impossibile vedere oltre ciò che già si conosce, oltre i limiti imposti da un sapere subìto e relativizzato, quello che si suole definire cultura e che è veleno se non contempla il desiderio di accostarsi ad un sapere altro per trascendere se stesso. Così né Totò né Vicé sono mai in grado di rispondere alle domande che incuriosiscono l’altro, impedendosi di fortificare le proprie posizioni individuali ed il proprio ego nell’atto di insegnare; è questo ciò che li lega come corpo unico e li rinfranca nelle singole identità, una sostanza del tutto immateriale ed ineffabile descritta solo dall’interrogativo e dal silenzio che segue.
In tutto questo disegno c’è senz’altro la grandezza e l’originalità speciale di un autore come Franco Scaldati, ma Vetrano e Randisi apportano una resa scenica che nessun testo può dettare o descrivere, né solo evocare: è un esempio la gag tutta mimica dell’ombrello, in cui ognuno dei due personaggi “crede di far credere” all’altro che non abbia ancora smesso di piovere. Si tratta di un autentico capolavoro di bravura attorica, che viene montato da Vetrano e Randisi in corrispondenza di un passaggio assolutamente minimale in termini testuali e letterari, come sempre avviene nelle pantomime o nelle didascalie. Al contempo, l’esempio fa da campione per un’altra caratteristica portante dello spettacolo: la semplicità spartana dell’impianto scenografico che, lungi dalla rinuncia alla cura dell’effetto visuale, lo proietta su di un piano evocativo, in cui singoli oggetti guadagnano una potenza iconica. Lo spazio scenico è circoscritto dentro un cerchio tracciato a terra da semplici lumini, per un disegno luci che prevede il posizionamento a terra anche per la strumentazione elettrica di supporto, indirizzando i fasci luminosi dal basso verso l’alto. Al centro, la nudità di una panchina e le due enormi valigie con cui Totò e Vicé entrano in scena, simbolo del loro destino ramingo e pozzo misterico da cui vengono estratti oggetti stravaganti, come il registro del camposanto o l’aureola luminosa di Vicé per il giorno del suo onomastico.
Questo tipo di economia scenica ed estetica fa d’altronde parte della cifra stilistica ormai tipica di Vetrano e Randisi sul piano registico, punto questo che loro amano far risalire alla lezione del maestro Maurizio Viani, curautore per anni del disegno luci dei loro spettacoli. La “lezione” è quella dall’importanza giocata dall’illuminotecnica in teatro ai fini scenografici, in cui la luce è capace non solo di irrorare visibilità ma di disegnare una scenografia immateriale dall’effetto ben più forte di quello vanamente inseguito dagli elaborati paramenti della scenografia materiale, sia essa di matrice realistica o allusiva. Di certo il dato si inserisce perfettamente nella tradizione del teatro d’attore, che Vetrano e Randisi conservano con inossidabile purezza anche una volta assolte e sommate le incombenze della regia. Dopo trent’anni di mestiere teatrale, che li ha portati a collaborare con maestri diversissimi per origine e segno stilistico, quali Michele Perriera, Beppe Randazzo, Leo De Bernardinis, Alfonso Santagata, la sommatoria delle esperienze accumulate indica il valore dell’inclusione, elaborando un terreno comune per categorie un tempo opposte come tradizione e ricerca. Questo istinto inclusivo ed allo stesso tempo indomito è riconoscibile anche in fondo alla valorizzazione di un autore ancor poco conosciuto come Franco Scaldati, nonostante i premi Ubu nel 1990 e 1997, nonché un paio di comparse cinematografiche; così non tradisce la ricchezza linguistica originale l’opera di meta-traduzione che è alla base della messinscena incantevole di Vetrano e Randisi, tramite cui un testo marcatamente locale e confinato all’insularità come Totò e Vicé si apre finalmente alla fruizione vasta in nome della cifra universale inscritta nel medesimo inchiostro della sua sicilianità.
Enzo Vetrano e Stefano Randisi in Totò e Vicé, di F. Scaldati – 8/9 Dicembre 2013 Florian Espace, Pescara
Paolo Verlengia


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