ART
MONASTERY PROJECT: IL SACRO, QUI E ORA
Tra
spiritualità ed arte, il progetto statunitense chiude a Pescara la
sua tournée internazionale
La
dicitura un po’ logora di “teatro sperimentale” ritrova
istantaneamente la sua pienezza di senso di fronte ad uno spettacolo
come Prime – The Fruit of the Stone, andato in scena ieri
sera sul palco del Florian. Ancor più, i canoni dell’esperimento
si addicono al progetto di cui lo spettacolo è esito, ovvero l’Art
Monastery Project, ideato alla fine del 2006 da un nucleo di artisti
americani interessati all’esperienza interiore del processo
creativo, di cui la performance finale non è che conclusione. Di qui
l’idea di avvicinare la regola della vita monastica alla creazione
artistica, sulle basi comuni dell’etica, della spiritualità e
della contemplazione. E se la spiritualità degli artmonks
(ovvero, letteralmente, i “monaci dell’arte”, a designare gli
artisti aderenti all’esperienza di Art Monastery Project) va intesa
in senso laico e sincretico (si spazia dai canti gregoriani allo
yoga), è concreto il riferimento al monastero come luogo che ospiti
le attività degli artmonks. La struttura fisica del monastero
permette infatti non solo il raccoglimento interiore, ma anche
l’immersione con la natura e con la comunità circostante, con i
cittadini che divengono i primi interlocutori a cui aprire le porte e
rivolgere la partecipazione alle proprie attività artistiche.
Con
queste premesse e dopo una attenta ricerca, il progetto ha
individuato nel territorio italico la sede principale verso cui
indirizzare le proprie proposte di attività, in virtù della dovizia
di monasteri e conventi dismessi da poter convertire ad uso creativo
e partecipativo. Il Project sbarca dunque ufficialmente in Italia nel
2008 a Calvi, in Umbria, mentre dal 2010 al 2012 mette le tende a
Labro, vicino Roma. Infine nel 2013 la collaborazione con l’Accademia
del Rinascimento Mediterraneo di Lecce sembrava aver chiuso la
parentesi italiana del Monastery Academy Project. Ma la storia ha poi
conosciuto un finale diverso, come vedremo.
Tornando
allo spettacolo Prime – The Fruit of the Stone,
internazionalità ed ecumenismo sono le altre componenti fondative di
questa insolita serata novembrina, in cui Florian Teatro conferma
un’ultima volta la propria vocazione di scena stabile e
d’innovazione, interessata -oltre le etichette burocratiche e senza
preclusioni di categoria- alla conoscenza diretta di quanto si muove
a livello magmatico, talvolta carsico, sopra e sotto il terreno della
produzione teatrale. In questo caso il terreno coincideva con il
nostro territorio abruzzese, che nel mese di agosto ha fatto da sede
fisica e spirituale per una delegazione di giovani artisti americani:
presso il magnifico ex convento delle Clarisse di Caramanico Terme
(che per merito dell’associazione Re.Te. ospita da due anni
artisti, praticanti ed amatori dello spettacolo, delle arti visive e
musicali in progetti di residenze teatrali) gli artisti hanno
lavorato per quattro settimane al concetto di alba, dividendosi tra
esibizioni, seminari e laboratori aperti alla partecipazione
pubblica, nonché una più raccolta pratica di meditazione e ricerca.
Senza dunque copioni né canovacci di partenza, questo percorso di
lenta fermentazione ha impresso la propria forma alla performance
Prime, il cui nome allude alla prima ora del dì, e quindi
alle tante albe realmente esperite dal gruppo di lavoro durante il
soggiorno di Caramanico, per entrare in comunicazione con la
dimensione spirituale del risveglio naturale ed organico. C’è
difatti in questo spettacolo una più complessiva rispondenza tra le
scelte estetiche che caratterizzano l’azione scenica e la materiale
contingenza del lavoro da cui essa è germinata spontaneamente, come
la presenza iconica e non solo nominale di pietre e frutti, derivata
per suggestione diretta dalla struttura fisica del “petroso”
convento di Caramanico, circondato da una vegetazione a tratti
lussureggiante. Tuttavia, la rappresentazione non diviene mai
fotografia, né contenitore di istantanee seriali, piluccate dal
diario di un’esperienza fattuale, ed il lavoro appare in ogni suo
passaggio minimo il risultato di un procedimento composito oltre che
rituale, di una “ricetta” criptica predisposta dall’intervento
congiunto di più sapienze, come si addice all’antico laboratorio
di uno speziale. Così lo spettacolo si presenta sotto una forma
sensoriale dalla consistenza ambivalente, costantemente leggero e
profondo ad un tempo, etereo e corporale, secolare e sospeso, fragile
e sensuale. Ma soprattutto mescola tratti primari ed ingenui con
segni codificati e calibrati, per una dualità senza dualismi di
azione e gesto.
La
presenza in scena dei soli Raphael Sacks e Neva Cockrell permette di
catalizzare l’attenzione dello spettatore sui dettagli di un lavoro
collettivo e multi-livellare (testuale, musicale, coreografico,
recitativo), di cui i due performer diventano gli officianti rituali,
conducendo la fruizione lungo la durata di un tempo scenico non
breve, amplificato nella percezione dello spettatore dalla ciclicità
dell’azione rappresentata.
Il
tempo è forse la presenza che guadagna maggiore protagonismo, per
effetto di un sottratta autorevolezza di quanto è materialmente
presente in scena secondo i canoni tradizionali: oggetti, personaggi,
dialogo, struttura narrativa. Il tempo viene formalizzato nell’azione
tramite una ciclicità di sonno e risveglio che divide spazialmente i
due amanti, a loro volta attori inconsapevoli di miti atemporali, in
cui la coppia resta come mera giustapposizione di destini
individuali. Ma il tempo è anche il fluido che va a riempire la
ripetitività delle scene, trasformandole in variazioni
lungo l’asse qualitativo della relazione umana, in cui la coppia
può rigenerarsi solo a patto di riconnettersi con la sacralità del
presente, del quotidiano, dell’ordinario, finanche del prosaico.
Per
quanto riguarda lo spazio, la scena di Prime si presenta
avvolta in una atmosfera di “grazia post-moderna”, per effetto di
un allestimento estremamente sobrio (letto spartano, tavolo,
sgabelli, piatti, tazze, una candela, ma anche la luce furtiva di un
telefonino tascabile o la plastica di una tastiera per computer, il
tutto sotto una cornice aerea di disegni colorati improvvisati su
carta semplice) avvolto in una musica sintetica ovattata, che farà
da antagonista in una “singolar tenzone” tutta endo-artistica con
gli assoli cantati dal vivo ora da Raphael, ora da Neva, ognuno
isolato dal canto all’interno della propria impermeabile percezione
individuale.
Una
notazione tecnica va al fatto che le parti testuali, sia recitate che
cantate, sono espresse in lingua inglese, per una performance che si
offre alle diverse tipologie di pubblico su scala internazionale;
come sempre avviene nei casi di ecumenismo artistico (il pensiero va
a Peter Brook o all’Odin), il linguaggio performativo non fonda
integralmente sul testo, stimolando gli interpreti e la regia alla
creazione di una comunicazione extra-verbale. Su questo piano, va
messa in risalto la grande versatilità dei due performer, in
particolare l’espressività di Neva Cockrell nelle coreografie di
Raphael Sacks nel canto.
La
serata di Pescara chiude il lungo tour europeo di Prime, ma
soprattutto la circolarità di un ciclo che in terra d’Abruzzo ha
conosciuto la sua gestazione. Più in generale, l’ospitalità
estiva presso il convento di Caramanico Terme ha permesso all’Art
Monastery Project di poter continuare a vivere ed a pensare in
termini di programmazione futura.
Paolo
Verlengia
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