PROMESSE
DI PRIMAVERA NELL' INVERNO DI VINCENZO MANNA
Al
Matta una pièce del pluripremiato autore norvegese Jon Fosse
prodotta da Florian Metateatro
Finalmente! E' con questa
esclamazione che la scena pescarese deve aver accolto l'arrivo di
Inverno, pièce a cui si deve il merito oggettivo di aver
portato nel nostro territorio un autore come Jon Fosse. Sì perché
il norvegese è oggi – secondo le stime degli addetti ai lavori -
il drammaturgo più rappresentato al mondo, tradotto in più di
quaranta lingue, vincitore del prestigioso (ed economicamente
munifico) premio Ibsen nell'ormai lontano 1996 ed in seguito più
volte in odore di Nobel per la Letteratura. Il tutto a soli 56
anni. Condiscono il piatto già sapido un profilo personale
controverso (tre matrimoni, più una conversione religiosa alle
spalle) ed una mole di riconoscimenti addizionali, su cui spicca la
residenza onoraria presso il palazzo reale di Norvegia, dove Fosse
trascorre parte del suo ciclo annuale, ritagliandosi parentesi più
raccolte e raminghe tra i paesaggi austriaci ed i fiordi natii.
Questa serie di fattori ha fatto sì che divenisse lecito nell'ultimo
decennio parlare in termini roboanti di "Fenomeno Fosse",
confezionando irresistibili titoli ad effetto per le terze pagine ed
i magazine di settore. In Italia non eravamo del tutto digiuni
in termini di messinscena, dopo i lavori iniziatici di Binasco,
Mabellini e soprattutto di Malosti, premio UBU 2004
(come "Migliore Novità Straniera") proprio con Inverno.
Al pari va segnalata l'azione divulgatrice operata in campo
editoriale da Titivillus ed Editoria&Spettacolo, per attenersi
alla sola produzione teatrale di Fosse.
Parliamo
infatti di un autore estremamente versatile oltre che prolifico,
capace di spaziare dal romanzo al racconto, dalla poesia alla
drammaturgia, concedendosi variazioni nella saggistica e nella
narrativa per l'infanzia. Anzi, gli esordi sono avvenuti
rigorosamente nell'ambito della prosa, con un Fosse che confessa
addirittura il suo esplicito distacco rispetto al teatro fino alla
metà dei trent'anni; eppure sarà proprio tramite il teatro che egli
costruirà la sua affermazione internazionale nel giro di un decennio
scarso.
Inverno
(pièce del 2000) fotografa proprio questo momento di rinnovata
consapevolezza artistica e di familiarità con uno strumento teatrale
scoperto quasi per caso o per necessità, quando la scrittura in
prosa si era lentamente lisa nelle mani del nostro autore in quanto a
potenza creatrice. Fosse ha smarrito i canali che fin ad allora hanno
connotato la sua dimensione di scrittore e così si butta nel teatro,
come vero e proprio salto nel buio. Siamo nel 1994, data del suo
esordio come drammaturgo. E' un dato importante, del tutto distante
dai fronzoli dell'aneddotica, perchè ci permette di inquadrare la
genesi di una drammaturgia criptica come quella di Jon Fosse e di
comprendere al pieno una messinscena come quella congegnata da
Vincenzo Manna per Inverno. Diciamolo subito ed apertamente:
la drammaturgia di Fosse spiazza per la sua fuggevolezza e per la sua
distanza, ma anche per la sua fattura acerba, adolescenzialmente
atteggiata nelle pose di una maturità e profondità di pura maniera,
incapace -a giudizio di chi scrive- di divenire mai stile o forma,
finanche un'estetica del silenzio o del degrado, che d'altronde non
costituirebbero una sorpresa. Lontanissima soprattutto dal toccare le
potenzialità della "macchina teatrale" e dunque
assolutamente incompiuta come drammaturgia. I giudizi benevoli e
sperticati -che paragonano Fosse ora a Beckett ora a Pinter ora ad
Ibsen- sono allo stesso tempo generici, contraddittori e privi di
riscontro concreto, servendo unicamente come ultima riprova di un
giudizio mancante per effetto diretto di una drammaturgia
semplicemente assente.
Eccoci
dunque alle problematiche di messinscena: benché anagraficamente
giovane, Manna non è nato ieri come regista e più in generale come
uomo di teatro, vantando un curriculum di tutto rispetto anche come
drammaturgo. Con queste premesse, egli deve aver colto sin
dall'inizio le difficoltà poste da una scrittura quasi
irrappresentabile, così come -d'altronde- un testo propone sempre la
sfida acre e pastosa di un lavoro di rappresentazione, più simile al
duello che non all'innamoramento tutto entusiastico ed intuitivo
troppo spesso raccontato dalla vulgata di foyer. Soprattutto è
sempre giusto, doveroso ma anche artisticamente interessante
confrontarsi con la nuova drammaturgia, sia per gli artisti del
palcoscenico che per chi produce e distribuisce gli spettacoli, al di
là dei giudizi di merito (che vengono dopo la riconosciuta fortuna
di aver assistito ad un nuovo spettacolo, mai preventivamente).
D'altronde, che Fosse sia riuscito ad imporsi a livello planetario è
un dato sia inconfutabile che gravido di opportune valutazioni,
concernenti il senso del teatro nel nostro tempo.
La
regìa di Manna è tutta giocata sull'equilibrismo intercorrente tra
una famelica aggressione del testo di Fosse ed un suo rispetto
sussiegoso. La scena è nuda, spogliata delle più minime vesti
teatrali sia in termini di scenografia che di illuminotecnica,
lasciando i corpi delle due attrici come abbandonati ad un
protagonismo che non ha niente di eroico né di spettacolare. Perdute
su di uno spazio scenico troppo grande, senza direzioni da percorrere
e posture da reggere, attrici e personaggi si fondono in un supplizio
che non è tratto dalle pagine di una storia tragica, ma dalla
quotidianità banale, benché non quella ordinariamente borghese.
Il
gelo che si percepisce dalla scena richiama totalmente il titolo
della pièce di Fosse, ma lo fa slittare dal significato letterale a
quello più complesso di una condizione umana che l'autore fotografa
all'inizio del terzo millennio, come all'abbrivio di un ciclo
trasformazionale che conoscerà anche le stagioni del disgelo e del
calore. Forse l'ambivalenza ed un certo grado trattenuto dello
spettacolo imbastito da Manna mira a disegnare un quadro in cui
l'immagine riprodotta non sia fissa, ma contenga anche la traccia di
una sua deformazione, come un'ombra di mascara slavato dal pianto.
In questo senso, la scena di questo Inverno imprime la
fotografia di un presente che presagisce una sua posterità, scattata
non per ingiallire alimentando la nostalgia, ma per incoraggiare a
cogliere la pienezza di un esistente che vive e vibra anche nei
fotogrammi più degradati.
Il
tutto chiaramente rappresenta un programma assolutamente
interessante, capace di salvare il teatro contemporaneo dalle sacche
oziose del ruolo civile o della memoria storica, ma non assicura
automaticamente la chiave per adempiere al compito individuato. E
così accade che lo spettatore abbia un repentino fremito di emozione
negli intermezzi che si frappongono tra i quadri dialogati:
finalmente un gioco di luci, finalmente un'azione raccolta in una
porzione di palco, ritagliata dal chiaroscuro di fasci sagomati. E
soprattutto finalmente il lavoro eminentemente teatrale di
sovrascrivere il testo con una pasta sensoriale fatta di gesto,
azione e suono sottratti ai limiti della logica. L'impressione è che
lo spettacolo possa trovare la sua maturazione piena aprendo maggiori
porzioni a questo tipo di linguaggio scenico anche dentro i quadri
dialogati, forzando al linguaggio scenico i ritmi ed i tempi di un
dialogo che mostra tutti i suoi limiti se recepito realisticamente.
Il
tratto più caratteristico di questa messinscena è dato sicuramente
dalla scelta registica di sostituire l'uomo e la donna previsti da
Fosse con due personaggi femminili, il che favorisce il gioco delle
ambivalenze e delle ambiguità, così come predispone il tranello
della banalizzazione: l'implicazione omosessuale può apparire
graffiante o innovativa solo ai pruriti di un pubblico artisticamente
ingenuo e culturalmente retrogrado. Per contro, la mera situazione
omofila (privata di inutili cascami di marca sessuale) contrappone
sulla scena due corpi "geminati", come due estremità di
uno stesso corpo poste ai lati di uno specchio infranto, dove lo
scontro tra le diverse età delle due attrici propone soluzioni
accattivanti sia sul piano visuale che su quello interpretativo. In
questo senso, è vincente la coppia formata da Anna Paola Vellaccio e
Flaminia Cuzzoli, capaci di rimodulare continuamente i rapporti di
forza del dialogo, proiettando il dramma dal piano esteriore della
vicenda a quello interiore, dove ha senso il tempo quanto
l'atemporalità, il corpo e l'anima, che si trasformano impastandosi
nel vivere quotidiano. Sporcandosi e scorrendo, sprecandosi ed
ansando, le due tenere umanità -diverse ed identiche- smettono ben
presto di offendere il pubblico pudore che usano a mo' di schermo.
Soltanto evolvono, bruciando al fuoco sacrificale dell'esistenza, per
dissolversi nell'immaterialità del suo senso. L'enigma si
riattualizza, come condizione dell'uomo del terzo millennio e tutto
ciò che resta da intendere, è una verità da carpire olfattivamente
tra pulvscoli di cipria e molecole di vapore.
Paolo
Verlengia
Pescara, SPAZIO MATTA, 20-21 Febbraio 2015
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