IL
FANTASMA DEL PALCOSCENICO COLPISCE ANCORA
Manuele Morgese
chiude al Florian la lunga vita artistica del suo Dorian Gray
Chiusura ad effetto per
la rassegna “Teatro e Letteratura” di Florian Metateatro, per la
quale viene scomodato un personaggio come Dorian Gray, che si può
pacificamete annettere alla dotazione dell'immaginario collettivo. E
se non apparisse indelicato in termini di bon ton, si potrebbe
a buon titolo parlare di vera e propria riesumazione, sul piano
tecnico ed artistico, visto che per l'occasione Manuele Morgese
riporta in scena il pluripremiato testo che Giuseppe Manfridi ha
dedicato anni orsono al capolavoro di Oscar Wilde e che è valso
all'interprete partenope il Premio Flaiano Speciale nel 2009,
suggellato dal premio Gassman l'anno successivo.
Lo spettacolo ha
conseguentemente viaggiato sulle ali del successo per più stagioni,
inanellando oltre cento repliche e concludendo gloriosamente la sua
parabola fisiologica. Le dinamiche di palcoscenico prevedono infatti
che uno spettacolo nasca spesso da congiunzioni astrali e da
scintille non aliene alla partecipazione attiva del caso, ma poi -una
volta varato l'argine della prima- esso risente di meccanismi più
rigorosi e materiali che hanno a che fare con le regole non scritte
del lavoro di scena, ove l'usura e la quantità delle repliche si
misurano dialetticamente con altri fattori, quali il rapporto con il
pubblico o la sfida artistica verso progetti nuovi.
Il Caso Dorian Gray
-questo il titolo preciso dello spettacolo- giunge dunque nel
cartellone “Flussi 2015” di Florian Metateatro in un momento ben
preciso della propria storia, per sancire la completa maturazione
raggiunta da un intero progetto artistico. E così, se accade spesso
di salutare la prima di uno spettacolo, destinato ad un numero
auspicabilmente ricco di repliche, è condizione ben più rara per lo
spettatore poter assistere ad una ultima rappresentazione, con
la consapevolezza di partecipare ad un rituale addio celebrato da un
artista verso un proprio personaggio.
Qui -a dire il vero-
Morgese di addii ne pronuncia tre con un colpo solo, visto che
altrettanti sono i suoi alter ego di scena. Il Caso Dorian Gray
prevede infatti il susseguirsi di tre quadri monologici in cui la
vicenda viene esposta al pubblico ogni volta da una differente
prospettiva, fornita al pubblico dal punto di vista di tre
personaggi: nell'ordine, il dandy sir Henry Wotton, il pittore
Basil Hallward e naturalmente l'eroe eponimo wildiano. I tre profili
maschili divengono nella regia di Pino Micol una palestra per unico
attore, ove Morgese ha modo di mostrare a pieno le sue doti tecniche,
per altro confermate dai premi ottenuti. Fanno da cornice i drappi
oscuri spioventi alle spalle dell'attore, che si prestano in più di
una occasione a seducenti effetti scenici di ombre e trasparenze,
andando a costruire complessivamente un quadro dal respiro
marcatamente gotico.
Sul lato destro del
proscenio fa da contrasto alla verbosità compiaciuta e manieristica
del testo la presenza muta e nuda di un quadro immateriale,
sprovvisto di qualsivoglia tela ma capace di attivarsi in luce tra le
assi di una massiva cornice dorata, che l'attore tramuta in energia
fisica tramite reazioni veementi, finanche ridondanti.
In questo modo viene
assecondato scenicamente un testo di impianto fortemente
ottocentesco, dove Morgese vince la sfida di una prova di forza e di
scuola, sia sul piano dell'agilità vocale che su quello della
prestanza corporea. Lo spettacolo, al lordo della sua lunghezza
ponderosa, predispone sul piano estetico dunque tutti gli ingredienti
per la soddisfazione di un pubblico affezionato ad un teatro di
tradizione, in cui Manfridi e Nicol hanno traslato un materiale di
tipo romanzesco. Quello di Dorian Gray viene proposto come un “caso”
da sottoporre ad analisi, tramite la versione di due testimoni
privilegiati – il cinico dandy ed il timido pittore-
collocati reciprocamente agli antipodi sul piano umano e
caratteriale; quindi nel finale la parola passa al protagonista
stesso, quasi l'imputato di un processo o il colpevole di un noir.
In uno schema
drammaturgico ideale, il momento della verità dovrebbe costituire la
scena madre, che i quadri precedenti hanno reso necessaria allo
spettatore montando ad arte le componenti del dubbio, della
sospensione emotiva e dell'attesa. In realtà, il materiale narrativo
d'origine mostra di prestarsi poco a questa progressione, quanto meno
secondo la linea prescelta dall'adattamento.
Pregevoli sul piano
tecnico gli intermezzi visuali e sensoriali posti tra i singoli
monologhi (ove si alternano presenze corporee ed incorporee, come il
rintocco frenetico di passi senza padrone sulle assi del palcoscenico
momentaneamente deserte) che tendono tra l'altro ad attivare
connessioni temporali di flash-back e flash-forward tra
i piani dei personaggi, che i monologhi teatrali isolano fatalmente
rispetto all'intreccio romanzesco. Tuttavia lo spettacolo ne fa un
uso eccessivamente rapido non solo sul piano della durata; il canale
narrativo viene scelto come linguaggio portante -anziché
privilegiare sfide più ardite, magari penalizzanti rispetto a
criteri di pedissequa fedeltà all'originale- e questa scelta di
partenza predispone alla spettacolarizzazione mattatoriale, dove
Morgese supera con brillantezza accademica una sfida tutta personale
tra sé ed una prova d'attore.
Paolo Verlengia
“Il Caso Dorian
Gray” Di G. Manfridi, regia P. Micol, con M. Morgese – 11 Aprile
2015, FLORIAN METATEATRO, Pescara
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