A PROPOSITO DI
ANTIGONE …
Approda al Teatro
Marrucino l'ultimo lavoro della compagnia “Shakespeare in Converse”
Tornano ciclici. Talvolta
appaiono dal buio, quando non entrano in scena dalle quinte o
direttamente dalla platea, preceduti solo dal fruscio arcano dei loro
arti, disciplinati, cadenzati all'unisono. Quaranta attori sul palco
-qualcuno più, qualcuno meno- capaci di assumere la forma di un
corpo solo, così come quella di svelarsi d'un tratto nelle loro
singole individualità, come la moltitudine di una metropoli senza
tempo.
In questo modo risalta
ancor più forte l'eterna solitudine del protagonista,
confortato soltanto dalla vicinanza mimetica ma solo affettiva del
pubblico. La protagonista, per essere precisi, perché questa
è la volta di Antigone, forse non la più popolare, ma di certo la
più moderna e “politica” protagonista femminile del repertorio
classico occidentale, portata in scena da Veronica Pace con i ragazzi
di Shakespeare in Converse, compagnia e scuola di recitazione fondata e diretta
da lei stessa presso il Liceo G.B. Vico di Chieti.
Siamo comunque distanti
dai canoni che di norma caratterizzano i saggi di fine anno o di
laboratorio. Pur mantenendo un occhio costantemente ammiccante verso
la parodia e la farsa, che si riconcilia con la cifra giovanile della
produzione, questa Antigone è mossa principalmente da una
cifra teatrale dove sono riconoscibili in ogni passaggio il lavoro
attorico e quello registico, la cura e la serietà delle prove,
l'analisi e la metabolizzazione del testo.
Ed allora si possono
tranquillamente abbandonare gli atteggiamenti protettivi, comprensivi
o pedagogicamente prudenti, per notare serenamente anche i limiti di
quello che è giusto considerare uno spettacolo a tutti gli effetti.
Nel suo incedere e soprattutto nell'approssimarsi al finale, il
lavoro cede alla tentazione dell'accumulo, sul piano della quantità
dei quadri e degli inserti extra-drammaturgici, dove convince
soprattutto il tema di una natura potente e ferita, contrapposta ad
un piano umano bipolare, vittima e carnefice ad un tempo.
Questa tendenza eccedente
ed iperbolica finisce per trascinare con sé la strutturazione del
linguaggio, dove il messaggio si fa didascalico, arrivando a dettare
in maniera dichiarata i significati primari e secondari (i perché ed
i per come della vicenda, i risvolti sociologici del personaggio, il
ruolo del teatro, gli appigli contemporanei e finanche cronachistici
del mito). Per contro, il lavoro artistico si eleva sempre quando
scopre o rammenta la capacità di contenere e sottrarre, mentre lo
spettatore che lamenti la scarsa comprensibilità di un'opera è
persona che di fronte all'arte arriva per caso, per noia esistenziale
o per abitudine indotta, non già per desiderio né bisogno esclusivo
e cogente.
Detto questo, ogni regola
si annulla nella sua rigidità, e di certo il difetto più prossimo
ai crismi artistici è quello dell'eccesso, laddove naturalmente esso
sia inteso in termini di fervida inventiva e laboriosità febbrile.
E' qui che sorprende e convince oltre ogni ragionevole dubbio questa
Antigone “in converse”, tesa a strafare ma mai inetta nell'atto
di fare: il possesso del gesto, delle posizioni, dei movimenti e
della voce è sempre pulito, mantenendosi costantemente al di sopra
di uno standard espressivo costruito nel tempo, sia nelle scene di
massa che nei quadri individuali. Persino nei momenti parodia, dove
la parola viene condita brillantemente con termini e cliché del
codice dialettale, i giovanissimi attori riescono a non abbassare mai
la soglia della sorveglianza tecnica, sia in termini di sonorità che
di prossemica.
Val la pena sottolineare
che si tratta di elementi costitutivi del lavoro teatrale, che però
così spesso mancano nella loro totalità negli spettacoli che pur
compongono i cartelloni ufficiali: quante volte si assiste a
spettacoli retti dalla sola bravura o preparazione tecnica degli
interpreti, ma governati da una fissità scenica raggelante? E quante
volte l'espressività presunta dell'interprete viene intesa e
declinata a favore di una non-tecnica, ri-assurta a nuova tecnica ma
non sostenuta dall'elaborazione di un linguaggio pieno, energico,
carico o originale?
Nella sua rivisitazione
della tragedia di Antigone, Veronica Pace si premura per contro di
strutturare sul piano visuale ognuno degli innumerevoli quadri
proposti, che si avvicendano con valida distribuzione: il comico ed
il solenne, l'intimo ed il popolare, la forza e la delicatezza.
Allora, puoi chiudere gli occhi ed ascoltare un lavoro artistico,
curato nei registri e nei toni; puoi riaprirli e continuare ad
assistere ad un lavoro artistico, dove la scena è curata come un
quadro tridimensionale e vivente. Nuovamente conviene porsi una
domanda: quante volte uno spettacolo regge a questa semplice ma
inconfutabile prova del nove?
Per non parlare del
lavoro creativo di ideazione, ovvero la materia prima della regia.
Succede non di rado di assistere a lavori privi di un effettivo piano
di regia, che però viene rivendicato e puntigliosamente intitolato
sulle locandine e nei credits dello
spettacolo. Ora, essere a favore di un teatro di regia o di un
teatro dalla cifra meno connotata è questione personale, ma di certo
non basta dirigere le prove degli attori per firmare e rivendicare
una regia. Nel lavoro di Veronica Pace ci si imbatte in una idea dopo
l'altra, in corrispondenza di ogni singola situazione di scena, il
che la dice lunga sulle qualità di una artista di cui occorrerà
tornare presto ad occuparsi con la dovuta attenzione. La sua Antigone
deborda ma di certo non lesina, accumulando un materiale scenico
sufficiente per un paio di spettacoli, attingendo agli strumenti
tecnologici (l'illuminotecnica, la video-proiezione, la traccia
musicale, la voce registrata, la voce fuori scena), senza però porre
in secondo piano quelli “biologici”. Anzi, i momenti più potenti
vengono realizzati nei quadri corporei, dove gli attori creano
effetti plastici, talvolta delle vere e proprie sculture fisiche (che
riportano alla mente alcune gloriose creazioni del Living Theater), a
suggellare uno spettacolo cucito -nei tempi oltre che nella dinamica-
sulle caratteristiche fisiche dello spazio utilizzato.
E' in questa capacità di
dare espressione alla presenza degli attori che la tragedia viene
compenetrata con un'efficacia massima, riuscendo a mettere in rilievo
-più di ogni riflessione sociologica- la profondità della
condizione umana, così difficilmente raggiungibile dai concetti di
colpa e di merito, sospesa tra gli strumenti mondani della legge e
quelli imperscrutabili del piano divino, un altrove “olimpico” a
cui assegnare la dimora del senso.
Paolo Verlengia
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