LA
DRAMMATURGIA INGLESE ATTRAVERSO L'OPERA DELL'ACCADEMIA DEGLI
ARTEFATTI. Intervista a
Fabrizio Croci
A cura di Paolo Verlengia
L'
Accademia degli Artefatti si distingue sin dagli anni '90 per la
proposta di spettacoli di ricerca ed innovazione. Attorno alla figura
di Fabrizio Arcuri – fondatore, direttore artistico e regista – è
passata negli ultimi quindici anni dalla proposta di spettacoli di
forte impatto visuale ad un teatro di drammaturgia, focalizzato sulla
proposta di autori contemporanei, in particolare britannici.
Abbiamo
incontrato Fabrizio Croci, attore storico della formazione,
in occasione dell'evento “L'Accademia degli Artefatti attraversa la
drammaturgia inglese” organizzato a Pescara dal Florian Espace,
all'interno del programma “Teatro d'Autore e altri linguaggi” che
ha caratterizzato una ricchissima stagione 2015-2016.
*
* *
L'Accademia
degli Artefatti è una compagnia molto corposa, capace di allestire
spettacoli molto complessi, come anche di dare vita a performance
basate su di un rapporto diretto ed intimo con il pubblico.
Esattamente quanti componenti conta oggi?
Ho
perso il conto, devo dire la verità. Qualche pezzo l'abbiamo perso
per strada. Diciamo che è rimasto il nucleo storico, formato da 5-6
persone. Poi ci sono altri componenti non fissi che girano, che
rientrano per collaborare in un determinato lavoro. In questa
maniera, complessivamente raggiungiamo la decina di componenti.
Tu
fai parte del nucleo storico della compagnia?
Fondamentalmente
faccio parte del nucleo storico degli Artefatti, anche se formalmente
non ho mai fatto parte della compagnia. Non sono uno dei soci e non
rientro tra coloro che sono stati i fondatori ufficiali della
compagnia. Sono subentrato in occasione del primo spettacolo di
parola realizzato da Fabrizio Arcuri. Si trattava di Car, un
testo di Chris O'Connel, un autore irlandese che lavora in
Inghilterra. La compagnia veniva da un percorso molto più
performativo, un teatro fatto prettamente di installazioni. Il testo
di O'Connel comunque non ha niente a che fare con i drammi su cui gli
Artefatti lavorano da qualche anno e che hanno una complessità
drammaturgica maggiore. Quel testo sembrava la sceneggiatura di una
puntata di una fiction americana dei giorni nostri. C'era una rapina
ed io finivo per picchiare un altro personaggio. Da Car in poi
ho preso parte a tutti gli altri spettacoli che gli Artefatti hanno
elaborato su testi di autori inglesi contemporanei.
Quindi,
per rispondere alla domanda, esattamente io entro nell'Accademia
degli Artefatti dal 2000. Ma al di là del mio percorso personale,
Car ha rappresentato un nuovo inizio per l'intera compagnia,
perché ha preceduto tutti i progetti più celebri degli Artefatti.
L'occasione che ha accompagnato questo passaggio coincide con una
delle prime rassegne organizzate da Rodolfo Di Giammarco. Si chiamava
“Trend”, una rassegna teatrale completamente dedicata al teatro
britannico. Oltre a noi, c'erano gente come Ascanio Celestini,
Roberto Latini, Paola Cortellesi ... Ogni artista o compagnia si
cimentava con un testo praticamente inedito, scritto da un autore
inglese emergente. Ricordo che Rodolfo rimase soddisfattissimo del
nostro spettacolo e consigliò espressamente a Fabrizio Arcuri di
rimanere su quel tipo di traccia artistica.
Quindi,
tu subentri in occasione di una svolta artistica da parte
dell'Accademia degli Artefatti. Sei in grado di ricostruire le
motivazioni interne alla compagnia che hanno animato questa svolta?
La
svolta dal teatro immagine a quello di parola credo corrispondesse ad
una esigenza artistica di Fabrizio. A ben vedere, tutto il suo
percorso artistico funziona per tappe, che per altro lui affronta
molto lucidamente. Ad esempio, una volta esaurito un progetto come
“Dress Code Reality”, Fabrizio oggi ha maturato un nuovo modo di
vedere la scena e di andare in scena, e probabilmente in seguito
esplorerà altre vie. Secondo me è giusto procedere così: per un
artista cambiare, avere il coraggio di non rimanere sempre fedele
allo stesso modello, è qualcosa di fondamentale. Un artista non deve
esaurirsi in una sola cifra artistica. Sono sicuro che Fabrizio avrà
molto da dire all'interno di un teatro molto diverso da quello che
conosciamo ora e che gli riconosciamo. Tanto è vero che ultimamente
lo stanno scritturando come regista nomi famosi quali Michele
Placido, o enti importanti della scena ufficiale, come il Teatro di
Roma.
Effettivamente
una caratteristica lampante degli Artefatti è quella di cimentarsi
con linguaggi diversi, contaminandoli spesso all'interno di uno
stesso spettacolo. Guardando la produzione della vostra compagnia,
colpisce questo procedere per progetti, ovvero non solo singoli
spettacoli che si succedono, ma veri e propri cicli di spettacoli che
afferiscono ad una tematica comune ben riconoscibile, contrassegnata
per altro da titoli ben definiti.
E'
vero. Si tratta di un approccio ben preciso al lavoro teatrale, che
ha permesso di fare il lavoro che gli Artefatti hanno prodotto in
questi anni sugli autori inglesi contemporanei. Senza un approccio
per cicli o per progetti non sarebbe stato possibile esplorare un
percorso dall'inizio alla fine. Arcuri non fa mai uno spettacolo per
cavarsela quella volta al botteghino. Infatti succede anche che
qualche volta vada male, come è capitato ad esempio con Tre pezzi
facili di Martin Crimp. E' stata una esperienza strana, perché
con questo spettacolo da una parte abbiamo vinto il Premio Ubu per il
miglior testo straniero, ma dall'altra abbiamo conosciuto fortune
alterne: si trattava di uno spettacolo per il quale una replica
andava bene e dieci andavano male.
Come
mai?
Perché
era uno spettacolo concepito secondo una rete di comunicazioni che
Arcuri aveva messo a punto per il progetto “Dress Code Reality”.
Una sera trovavi la chiave, un'altra la cercavi ma non veniva.
Considera che si tratta di uno spettacolo basato su tre pezzi, in
tutto 6 pagine, ma solo il primo pezzo durava 40 minuti, perché
tutto era giocato sulle pause, era una triangolazione con il pubblico
che Arcuri aveva impostato sullo strumento della pausa. Quando non
era oggettivo il tipo di relazione che noi attori andavamo a cercare
insieme, la gente non capiva. Altre sere invece la gente faticava a
tenere la pancia in mano per le risate, e bastava che tu alzassi un
sopracciglio per provocare una risata fragorosa. Perché la relazione
era tenuta sempre su di un filo teso. Arcuri è stato un pioniere in
Italia per questo modo di fare teatro.
Hai
citato Martin Crimp, un autore che avete portato voi per primi in
Italia, e che voi avete tradotto in italiano per opera di Pieraldo
Girotto, che tra l'altro è anche traduttore di Mark Ravenhill, oltre
che attore storico dell'Accademia degli Artefatti. Crimp è più
anziano di Ravenhill e di Sarah Kane, e forse potrebbe avere
influenzato la loro scrittura.
Difficile
dirlo. So per certo che Sarah Kane e Ravenhill erano buoni amici e
che Sarah lo stimava molto.
Parliamo
di Sarah Kane, un'autrice che fatalmente è entrata nel mito, per via
di un percorso breve quanto intenso, non solo sul piano biografico:
la sua drammaturgia si limita solo a cinque drammi. L'Accademia degli
Artefatti ha portato in scena la Kane all'inizio degli anni 2000 ed
anche in questo siete stati dei pionieri qui in Italia.
Era
il 2004 e si trattava di Fedra's Love, uno dei testi più
belli di Sarah Kane, a mio avviso. Se penso a quello spettacolo
riesco ancora a sentire i brividi. Tra l'altro, è un testo
“maledetto”. Appartiene a quella schiera ingloriosa di drammi
bollati da una cattiva fama: si dice che porti “sfiga”. Se provi
a metterlo in scena, lo spettacolo andrà male, per un motivo o per
l'altro. Al di là degli aneddoti comunque, le probabilità che lo
spettacolo vada male dipendono soprattutto dal fatto che il testo è
difficile, pone delle difficoltà serie agli attori ed al regista.
Per me, solo con uno come Arcuri è possibile mettere in scena Sarah
Kane.
A
questo punto siamo curiosi: come andò quello spettacolo?
Andò
bene in molte piazze, ma ricordo anche che quando lo mettemmo in
scena al Piccolo Eliseo di Roma non andò molto bene, per tutta una
serie di motivi. Le prime tre file di spettatori si alzarono ed
andarono via indignate già alla seconda scena, quella del rapporto
incestuoso tra Fedra e Ippolito (per altro interpretato da me). Ad un
certo punto, c'era un rapporto oro-genitale, che per altro nella
nostra messinscena veniva solo alluso. Ma secondo me l'aspetto più
rivoluzionario di quello spettacolo stava nell'allestimento. Per
abbracciare più pubblico, Arcuri aveva deciso di aprire la struttura
del palco. L'edizione originale prevedeva una scatola bianca in cui
la scena veniva tagliata da delle ghigliottine e si avvicinava sempre
più agli spettatori che erano dentro questa scatola. Per dare più
visuale, in un teatro come quello dell'Eliseo, questa struttura a
scatole era stata aperta, perdendo tantissimo dell'effetto intimo e
voyeristico che è una caratteristica portante del teatro di Arcuri,
in cui lo spettatore si sente sempre un po' dentro alla scena. La
scruta, la ruba, non è uno spettatore passivo. In realtà il
risultato perseguito è quello di dare responsabilità al pubblico,
perché agisca attivamente rispetto alla scena. Ma questo va al di là
di discorsi teorici sulla quarta parete: è proprio un modo di stare
in scena da parte dell'attore. Che rapporto ho con il pubblico che mi
guarda? È la prima domanda che si pone Arcuri. E questo lo ha
portato a dei continui passi in avanti nel suo percorso artistico.
“Phedra's
love” è stato l'unico testo di Sarah Kane che avete messo in
scena, ma è uno strumento di lavoro che la vostra compagnia utilizza
spesso all'interno dei laboratori che organizza. Voi siete molto
attivi anche nella proposta di laboratori rivolti ad attori, registi
e drammaturghi, che voi strutturate a partire dalla nuova
drammaturgia internazionale: Sarah Kane, Martin Crimp, Mark Ravenhill
etc. Il ragionamento che si può ricavare, è che si tratta non solo
di una nuova forma di scrittura, ma evidentemente di una nuova
visione di teatro contenuta tra le righe, che crea nuove relazioni
tra attore e testo, tra attore e pubblico, tra pubblico e scena, e
che dunque ha bisogno di formare nuovi tipi di attori, spettatori e
registi, perché non può essere approcciata con una vecchia forma
mentale.
Sono
d'accordo. Per quanto riguarda Sarah Kane per noi è stata
fondamentale. Secondo me il lavoro che abbiamo fatto per Phedra's
Love conteneva in nuce quella nuova cifra teatrale che Fabrizio
Arcuri ha elaborato poi in tutta una serie di spettacoli successivi.
Fu una esperienza del tutto diversa da Car, che pure figura
come il nostro primo spettacolo di drammaturgia, ma non conteneva la
complessità testuale dei testi di Crimp, Ravenhill o Kane. Questa
rivelazione è avvenuta proprio tramite Sarah Kane. Car era un
testo molto chiuso, persino didascalico, poco aperto a diverse
interpretazioni o possibilità sceniche. I personaggi erano degli
stereotipi e i dialoghi erano muscolari. Diventavano interessanti
solo come farsa, come parodia che si può fare ad una scrittura
americana di estrazione televisiva e commerciale. Le battute finivano
tutte con “ok?” i personaggi erano dei cattivi, dei machos.
Quando
ti confronti con Crimp, Ravenhill o Kane hai davanti una tessitura
drammaturgica ben diversa. La scena tra Ippolito e Fedra testualmente
è lunga due paginette, ma in scena durava 40 minuti, ma questo tipo
di lavoro dal testo alla scena ce lo saremo portati dietro in tutto
il nostro percorso successivo in termini di pausa, di silenzio, di
rapporto con il pubblico. Lì è nata questa relazione scenica tra i
due attori, che è una triangolazione con il pubblico.
Cosa si intende esattamente per "triangolazione" con il pubblico?
La mia reazione viene prima condivisa con lo spettatore; il mio partner di scena la percepisce dal pubblico prima che da me. E' questa dinamica che è al centro di tutto il concetto “Dress Code Reality” che Arcuri ha poi declinato e rimodulato continuamente dentro ai diversi spettacoli che rientrano nel progetto. Matteo Angius ne ha elaborato una cifra stilistica molto precisa. Ha creato un nuovo linguaggio scenico.
Cosa si intende esattamente per "triangolazione" con il pubblico?
La mia reazione viene prima condivisa con lo spettatore; il mio partner di scena la percepisce dal pubblico prima che da me. E' questa dinamica che è al centro di tutto il concetto “Dress Code Reality” che Arcuri ha poi declinato e rimodulato continuamente dentro ai diversi spettacoli che rientrano nel progetto. Matteo Angius ne ha elaborato una cifra stilistica molto precisa. Ha creato un nuovo linguaggio scenico.
Immagino
che si sia trattato comunque di un processo di metabolizzazione lento
e graduale, più che di una folgorazione repentina.
Certo.
Tutto è stato molto graduale. Dopo Phedra's Love avevamo
colto questo nuovo linguaggio ma non ne avevamo ancora carpito la
genetica precisa. Ogni tanto ci riuscivamo, altre volte ci sfuggiva.
In questo senso, confrontarci con la scrittura di Crimp è stato
importante come banco di prova, come scalino successivo in questa
direzione. Tre pezzi Facili, Attentati alla vita di lei,
poi abbiamo proseguito affrontando i testi di Ravenhill e infine di
Crouch... Questa è stata la traccia del nostro percorso graduale. Si
tratta di testi teatrali molto particolari, in cui non esiste l'idea
di replica. Ogni sera vai a fare qualcosa di diverso da quanto hai
fatto la sera precedente o in prova. Tutto dipende dal tipo di
pubblico che incontrerai, perché lo spettacolo si costruisce al
momento stabilendo una relazione con il pubblico presente ed è
questo che detta la lunghezza di una pausa o la velocità di una
battuta.
C'è
un caso concreto che puoi raccontarci?
Un
esempio efficace può essere rappresentato dalla scrittura di
Ravenhill. Con lui ci siamo imbarcati in un'avventura quasi folle:
rappresentare un ciclo di 14 testi, che lui aveva scritto sul tema
della guerra, in relazione all'intervento dell'Inghilterra nella
seconda Guerra del Golfo. Ognuno dei testi di questo ciclo prevede un
diverso coefficiente di relazione con il pubblico.
Ci
sono dei pezzi “chiusi”, da questo punto di vista, come Delitto
e Castigo o Le Troiane, poi dei pezzi più aperti, come
Guerra e Pace, in cui gli attori (che in quel caso erano
Angius e Benedetti) si producevano in un continuo interfacciarsi con
il pubblico. A secondo del singolo pezzo il pubblico cambiava
funzione: ora impersonava gli iracheni, ora un tribunale militare.
Oltre a questo, il pubblico veniva esposto a delle reazioni forti. E'
una frase che molti usano spesso, ma qui si tratta di un lavoro
diverso. E' facile dare per scontato il rapporto con il pubblico in
teatro. Nei lavori che Arcuri ha curato a partire da questo tipo di
drammaturgia ho potuto sperimentare realmente una
responsabilizzazione del pubblico, un sua diversa partecipazione.
Tu
sei un attore molto attivo su diversi piani. Qual'è la vera
differenza che noti nei progetti dell'Accademia degli Artefatti? Qual
è il tratto distintivo che li stacca dalla maggior parte delle altre
proposte che vengono dal mondo dello spettacolo contemporaneo?
E'
facile dire: “faccio teatro contemporaneo” e poi magari si mette
in scena Shakespeare vestendo gli attori in giacca e cravatta o
mettendogli il telefonino in mano, come uomini d'affari odierni.
Personalmente, in quanto attore professionista, mi capita di fare le
esperienze più diverse, dalla fiction al teatro di cartellone, e le
trovo tutte importanti a loro modo. Allo stesso tempo, questo mi dà
la possibilità di riscoprire ogni volta la profondità del lavoro
che l'Accademia degli Artefatti svolge nella costruzione di un teatro
moderno, inteso principalmente non tanto dal punto di vista della
scenografia o del repertorio, ma come relazioni nuove che lo
spettacolo stabilisce con il pubblico.
Arcuri
riguardo al lavoro dell'attore pone spesso un problema, per il quale
lui usa il termine “legittimità”? Si tratta nel complesso di
mettere in discussione il ruolo dell'attore al giorno d'oggi. Tu da
attore puoi definirci meglio questo concetto ed il tipo di lavoro che
comporta?
A
questo proposito, io penso che a qualsiasi attore farebbe bene
lavorare con Fabrizio almeno in uno spettacolo, perché secondo me un
attore che non ha fatto esperienza con Arcuri è come uno che sa
guidare la macchina ma non ha mai guidato a Roma. Io sono di Parma,
che è una cittadina molto tranquilla ed ordinata, ma per lavoro sono
spesso a Roma. Ogni volta che torno dalle mie parti dico ai miei
amici che dovrebbero andare a Roma “a fare un po' di training”.
Se impari a districarti nel traffico di Roma allora impari a guidare
veramente. E' una battuta, ma la uso come metafora. Intendo dire che
un attore conosce una differenza simile quando arriva a lavorare con
Fabrizio Arcuri. Lui toglie all'attore tutto quello che non è
necessario, tutte le sovrastrutture che un attore si costruisce e si
porta addosso quando va in scena. Si tratta sicuramente di un sistema
di difese personali che ciascuno elabora per superare le proprie
fragilità o semplicemente per gestire la tensione, ma sono accessori
inutili dal punto di vista artistico e ti portano a formulare in
scena le soluzioni più scontate o superficiali. Per questo motivo,
Fabrizio parte da un principio: mettere la persona in una posizione
di assoluto protagonismo scenico. E' dalla persona dell'attore che
lui parte per costruire il personaggio. Per Arcuri il personaggio non
è altro che un “contenitore di dinamiche”, ovvero un vertice di
relazioni che il personaggio ha con gli altri elementi, come ad
esempio gli altri personaggi del testo, ma anche il testo stesso. Per
questo Arcuri parla di “legittimità”: recitare non è più una
pretesa o una istanza che sta lì. L'attore per Arcuri non è colui
che dice o che pensa: “ora vado sulla scena e recito questa prosa”.
Arcuri è un regista che costringe sempre l'attore a mettersi in
relazione con un insieme di variabili.
Puoi
farci qualche esempio?
Prendiamo
ad esempio il concetto o la categoria di “personaggio”. Arcuri
non cerca di “vestire” l'attore, cioè nel suo lavoro teatrale
non mette il personaggio addosso all'attore. Se tu devi impersonare
un determinato ruolo, da attore sarai tentato dal bisogno di
caratterizzare il tuo personaggio trovando degli escamotages di
maniera: ad esempio, se devi recitare nella parte di un
soldato, inizierai ad elaborare una camminata dura, una parlata
fredda o una voce cattiva... Ad Arcuri tutto questo terreno scontato
del mestiere di recitare non interessa. Lui ti costringe in ogni
momento a chiederti: perché in questo momento accade questa cosa?
che relazione c'è? dov'è lo spettatore? come passa questa battuta
dall'altra parte del palco? se devi dire questa battuta, cosa ti
porta a dirla? Secondo me è giusto pensare così, perché “tu
attore” (o “tu persona”) non sai perché dici una data battuta.
Il tuo personaggio sa perfettamente perché parla in una certa
maniera, ma tu come attore devi cercare di giustificare ogni frase ed
ogni parola. Questo processo di avvicinamento lento alla battuta da
parte dell'attore fa sì che il personaggio venga leggermente
spostato, quel tanto che ti permette di guardarlo sempre, senza mai
perderlo di vista. Ogni tanto gli sei di spalle e gli aderisci; ogni
tanto lo guardi frontalmente come una persona estranea, ma in ogni
caso non arrivi mai ad indossarlo veramente. In questo modo viene
eliminata dal lavoro dell'attore ogni componente di maniera e di
esibizione, mentre si raggiunge un grado incredibile di verità.
Parliamo di quella verità tanto ricercata dal teatro di regia a
partire da Stanislavskji in poi, con il realismo o con il
naturalismo, che però si è concretizzato in una pura ricerca di
verità dove rimanevano sempre dei buchi aperti. Ma è il problema
che rimane aperto: come si raggiunge la verità in teatro?
Soprattutto in certi testi che non sono i drammi della tradizione, è
particolarmente difficile per un attore raggiungere la verità
scenica, perché i personaggi mutano fortemente dopo una o due
pagine. Più che personaggi sono degli strumenti o dei pretesti,
utilizzati per mettere in campo determinati fattori. Mi viene da
pensare a Ravenhill, ed in particolare a testi come Mikado o
ancor più a Delitto e Castigo ed a Guerra e Pace. Se
tu pensi di limitare il tuo rapporto con il testo ad una analisi
basata su dei concetti astratti, come l'esportazione della democrazia
o il rapporto tra America ed Iraq, tra oppressore e oppresso,
invasore ed invaso e così via, francamente non riesci ad arrivare in
profondità. Sono contenuti che ci sono, ma non esauriscono il testo,
anzi ne limitano il valore drammaturgico. Il fatto è che questi
testi non sono come i drammi di Shakespeare, dove le battute sono
così belle che lo spettatore può anche non guardare quello che
fanno gli attori.
Quindi
si tratta di una drammaturgia non solo nuova i termini di scrittura,
ma che riscopre un ruolo nuovo per l'attore, non più accessorio o
ausiliario, ma necessario. A proposito di Shakespeare, viene da
pensare a Tim Crouch, il quale è soltanto l'ultimo dei drammaturghi
inglesi contemporanei che in Italia abbiamo conosciuto grazie alle
messinscene dell'Accademia degli Artefatti. Crouch ha realizzato
delle riscritture molto ardite tratte dal canone shakespeariano,
arrivando a comporre una pentalogia dal titolo “I Shakespeare”
imperniata sui personaggi più bistrattati o in qualche modo meno
popolari, dal mostro Calibano de “La Tempesta” a pure comparse
come il Cinna del “Giulio Cesare” o Fiordipisello di “Sogno di
una Notte di Mezz'estate”. In questa stagione tu reciti nei panni
di Calibano, in quello che -cronologicamente parlando- è stato il
primo testo della pentalogia di Tim Crouch. Cosa resta della
magniloquenza della “Tempesta” shakespeariana in “Io Calibano”
di Crouch?
Molto
poco. E mi permetto di dire che se questo è il primo dei cinque
pezzi che Crouch ha scritto su Shakespeare, questo fatto si vede in
maniera molto chiara, perché è di gran lunga il testo scritto
peggio. Faccio una sorta di piccolo sfogo personale, perché questo
testo mi ha dato davvero del filo da torcere. Per altro, ha avuto un
debutto fallimentare alla Biennale di Venezia: lo spettacolo non era
pronto e lo abbiamo presentato sotto forma di studio. In più, il
caso ha voluto che c'è stato un problema con i microfoni, oltre ad
un difetto di comunicazione, ma fatto sta che ad un certo punto metà
del pubblico si è alzata, gridando verso di me perché le battute
non si sentivano. A metà spettacolo la maggior parte degli
spettatori era andata via. Io ne ho viste tante, ma quella è stata
un'esperienza veramente forte. Fortunatamente poi, io e Fabrizio
abbiamo continuato a lavorarci su, fino a trovare il giusto calibro
di toni, così nel suo debutto nella versione completa, a Prato, lo
spettacolo ha avuto successo. Ma al di là del consenso, devo dire
che è venuto fuori davvero un lavoro interessante, perché Arcuri ha
fatto un lavoro notevole dal punto di vista drammaturgico.
In
che modo Arcuri da regista ha fatto un lavoro di tipo drammaturgico?
Ricordiamoci
sempre conto che Io Calibano è stato scritto da Crouch
nell'idea di realizzare uno spettacolo per bambini, per cui è una
riscrittura che gioca su componenti mirate ad una ricezione
infantile: il testo prevede elementi come una macchinina
telecomandata, ed il rapporto dialettico con Prospero prevede che lui
sevizi Calibano a suon di pizzicotti, come un monello. Tutto ciò che
in Shakespeare era parte di un dramma profondo, assume in questo
testo un contorno sdrammatizzato, ed in larga parte depotenziato.
Per questo motivo, non è semplice tirarne fuori uno spettacolo
interessante per un pubblico maturo. Ecco perché dico che Arcuri ha
fatto un lavoro di tipo drammaturgico, perché è riuscito a lavorare
sulle stratificazioni di significato che nel testo erano contenute
solo al di sotto della sua superficie. Poi lo spettacolo può anche
non piacere, perché si tratta di uno spettacolo “sporco”, per
certi versi. Qualcuno ci ha detto che abbiamo dissacrato Shakespeare,
non comprendendo però l'operazione che è stata fatta, perché di
questo passo diventa dissacrante anche un testo geniale come
Rosencrantz e Guilderstern sono morti di Stoppard. Ora,
Stoppard aveva voluto giocare su due “non-personaggi” creati da
Shakespeare. In termini profani, oggi li potremmo definire due
“sfigati”, perché vengono uccisi in quanto complici
inconsapevoli di giochi politici molto più grandi di loro. Crouch fa
un'operazione simile, andando a trovare dei non-personaggi come Cinna
ad esempio, che muore solo perché viene scambiato per un suo omonimo
più famoso che era stato tra i cospiratori di Cesare, mentre lui è
Cinna il poeta. Così nel Giulio Cesare di Shakespeare Cinna è un
personaggio che ha una sola battuta, per altro poco significativa sul
piano letterario, perché si limita ad urlare ai suoi assassini che
lui non è il Cinna che stanno cercando e poi viene ucciso subito
ugualmente. La stessa cosa avviene con Fiordipisello, che in Sogno
di una notte di mezz'estate ha solo una battuta, anzi neanche,
perché dice solo “Eccomi”.
Nel
caso di “Io Calibano” qual è stato il lavoro che avete fatto con
Arcuri?
La
bravura principale di Fabrizio sta nel fatto che lui per trarre uno
spettacolo interessante da un testo, non lo stravolge con la propria
visione operando tagli e aggiunte. Al contrario, lui cerca una chiave
scenica affidandosi al testo. Nel caso di Io Calibano,
si è posto delle domande semplici: cosa vuole da me questo autore?
Cosa vuole da me questo testo? Poi è andato a leggerlo, nel senso di
carpire delle informazioni che sono nascoste tra le parole. E così
sono venuti fuori degli elementi fondamentali ai fini scenici, che ti
aiutano anche più delle semplici battute. Ad esempio, il fatto che
Calibano era un africano che abitava su di un'isola, la quale viene
investita da una tempesta che porta con sé un pezzo di mondo
occidentale, una intera corte di persone potenti che devono spartirsi
dei regni con Prospero. E il confronto con Prospero è impari, perché
lui ha dei poteri magici. Calibano è la vera vittima di tutta questa
lotta: viene prima sfruttato, poi maltrattato e alla fine, quando
tutti fanno la pace e partono verso una nuova vita, lo lasciano da
solo sull'isola. In questo modo appare chiaro lo scenario di una
colonizzazione. Nello spettacolo questo scenario prende forma: io mi
ritrovo solo sul palco con dei resti che provengono da un passato
migliore (una radio rotta, dei libri che non so leggere). Ma
soprattutto questo scenario apre un collegamento illuminante con la
drammaturgia di Ravenhill, dove il tema di fondo è quello
dell'esportazione della democrazia occidentale. In questo modo, Io
Calibano diventa davvero un'operazione che riversa nello
scenario contemporaneo tutto il potenziale politico della Tempesta
di Shakespeare.
Siete
arrivati al progetto “I Shakespeare” alla fine di un intero
percorso di conoscenza con l'opera di Tim Crouch. Vi siete misurati
per la prima volta con Crouch nel 2007 all'interno di un
progetto teatrale denominato “Ab-Uso”. Puoi raccontarci le
motivazioni di quell'operazione?
In
effetti la tematica dell'abuso era molto presente nel testo di Crouch
su cui abbiamo lavorato la prima volta, che si intitolava An Oak
Tree. Crouch stesso recitava in prima persona in questo
spettacolo, quando veniva realizzato in Inghilterra. L'abusato era
l'attore, nel senso che per ogni rappresentazione veniva chiamato un
attore che non conosceva il testo, per cui si trovava a costruire una
storia che non conosceva ed in ogni momento non sapeva cosa sarebbe
successo poi. La storia era giocata sulla memoria di un evento
vissuto a ritroso e che si arriva a capire solo alla fine. Ma
soprattutto, si trattava di uno spettacolo giocato interamente sulle
relazioni, perché molto veniva affidato all'improvvisazione, parola
che normalmente detesto, ma che lì veniva riempita di senso. Gli
attori coinvolti in questa “esperienza al buio” reagiscono in
modo molto differente: c'è chi sta al gioco, chi si chiude e magari
se la prende, chi riesce a partecipare in maniera più creativa.
Dopo
“An Oak Tree”, avete messo in scena “My Arm”, un altro lavoro
molto originale firmato da Tim Crouch. Quali erano le caratteristiche
principali di quello spettacolo?
E'
uno spettacolo sotto forma di monologo, portato in scena da Matteo
Angius. Dal punto di vista del contenuto si tratta di una storia dai
connotati assurdi, ma il racconto è formalmente più lineare
rispetto ad An Oak Tree. Fondamentalmente viene narrata la
vicenda di un tipo che decide da quando è bambino di tenere un
braccio alzato, finché da adulto ad un certo punto il braccio gli va
in necrosi e lui muore.
Dal
punto di vista della messinscena, si tratta di lavori che portano al
coinvolgimento attivo del pubblico.
Senza
dubbio. Infatti spesso al di là delle vicende che il testo racconta,
viene “riscritto” il ruolo dello spettatore, che viene investito
di compiti più difficili. Viene responsabilizzato e stimolato,
soprattutto dal punto di vista intellettivo. Si tratta di una
tipologia diversa di spettacolo, che non consiste più in una prova
di bravura che l'attore serve ad un pubblico di osservatori esterni,
senza con ciò nulla togliere ad un teatro che si basa su elementi
più classici. Personalmente io amo ogni forma di teatro. Dico
semplicemente che esistono forme di teatro in cui il testo contiene
già in sé una sua rappresentabilità, a prescindere dal lavoro che
l'attore svolge per stabilire una relazione particolare con il
pubblico; invece testi come quelli di Crouch o di Ravenhill presi in
sé sarebbero quasi irrappresentabili senza l'elaborazione di un
sistema di relazioni e di dinamiche a volte impreviste ed
imprevedibili.
Dalle
tue parole sembra emergere costante una particolare predilezione per
Ravenhill. E' una impressione realistica?
Forse
è vero. Di certo Ravenhill è un autore che mi colpisce da molti
punti di vista. Penso ad esempio al fatto che quando lui ha scritto
il ciclo Spara/Trova il tesoro/Ripeti qui in Italia ed in
molti paesi d'Europa eravamo coinvolti nella guerra in Iraq, anche
se preferivamo utilizzare una parola ambigua come peacekeeping.
Io non ricordo un autore italiano che si sia sentito stimolato dagli
eventi a scrivere un testo su quella situazione di guerra
dissimulata. Certo, siamo abituati al fatto che in Inghilterra gli
artisti si muovano sempre prima di noi nel descrivere il presente,
eppure questa distanza dei nostri autori mi ha colpito. Io una
risposta me la sono data: è perché noi non percepivamo di essere in
guerra. Ci eravamo all'atto pratico, ma vivevamo e continuavamo a
vivere come se non fossimo in guerra. Nella nostra consapevolezza
collettiva come società italiana, eravamo come anestetizzati. Credo
che soprattutto la drammaturgia sia debole da questo punto di vista.
E'
la questione di un teatro di impegno civile, che forse in Italia,
laddove si presenti, si rivolge soprattutto al passato, alla
rivalutazione del patrimonio storico o al valore della memoria. Forse
un'eccezione può essere rappresentata negli ultimi anni da Massini.
Sono
d'accordo. Citerei anche un giovane autore come Davide Carnevali. Ma
forse al di là dei casi singoli, perché vengano stimolati dei nuovi
autori è necessaria la presenza incoraggiante di registi capaci di
costruire un nuovo linguaggio teatrale. Ecco perché sono così
importanti delle operazioni come quella di Arcuri sui drammaturghi
del nostro tempo.
Tra
l'altro, tu hai conosciuto personalmente qualcuno di questi
drammaturghi, se non sbaglio. Che tipi sono?
Ho
conosciuto Ravenhill e Crimp. Ravenhill è un simpaticone, mentre
Crimp è un tipo molto più riservato, persino raffinato direi. Di
Ravenhill ho un ricordo molto divertente: eravamo a Napoli assieme a
Pavolini, che avrebbe poi curato una edizione italiana dei suoi
testi. Pavolini gli faceva delle domande sul testo, sul significato
preciso di certi passaggi, per capire che cosa lui volesse dire
veramente. Ravenhill era quasi disinteressato, una spiegazione o
l'altra gli sembrava giusta. Lui diceva: “io ho scritto questo
testo. Ora voi potete farne quello che volete e il pubblico può
pensarne quello che vuole”. Crimp è un osservatore formidabile.
Ricordo che venne a vederci quando mettemmo in scena Tre Pezzi
Facili e ci disse una cosa interessante: uno dei pezzi nella
nostra versione durava 45 minuti, mentre in Inghilterra gli attori
inglesi di norma lo esaurivano in un quarto d'ora. In effetti noi
lavoravamo molto sulla dilatazione, perché ci sembrava l'unica
chiave possibile, mentre evidentemente gli inglesi lo recitavano
“botta e risposta”, anche se mi chiedo come.
Scorrendo
velocemente i profili degli autori britannici che avete portato alla
luce negli ultimi anni, colpisce un dato, che si ricollega in maniera
interessante a questo discorso: si tratta in molti casi di attori,
che ad un certo punto del loro percorso hanno iniziato anche a
scrivere. Spesso nelle compagnia britanniche oltre ad un regista è
presente un dramaturg, che scrive per una compagnia che conosce e con
cui collabora costantemente. In Italia, per tradizione, dal
dopoguerra in poi, la figura del regista è chiamata al compito di
ricoprire un compito “d'autore”. Gli autori veri e propri rappresentano una
categoria distaccata dal lavoro di palcoscenico e questo lavoro di
connessione con gli attori è demandato al regista, mentre una
tradizione come quella inglese da sempre vive di una connessione
diretta tra autore e scena.
E'
un'analisi molto giusta. Personalmente, mi auguro che lo scenario
qui in Italia cambi, perché trovo che il ruolo del drammaturgo sia molto importante.
Vorrei aggiungere a riguardo che in tutto questo c'è una
responsabilità dello stato, che in Italia non aiuta il teatro,
portando a questo tipo di situazione. Così, anche operazioni
importanti su autori sconosciuti o quasi, come quella fatta
dall'Accademia degli Artefatti in questi anni, resta allo stato di un
teatro di nicchia, ed in futuro potrebbe trovare sempre meno spazio.
Fabrizio
Arcuri è responsabile anche di “Short Theatre”, un festival
teatrale di grande interesse proprio per la proposta di autori e
spettacoli innovativi. Forse lo strumento del festival nasce
dall'esigenza di coinvolgere un pubblico più vasto attorno a
proposte che altrimenti sarebbero relegate ad uno spazio di nicchia o
per soli addetti ai lavori.
Di
certo “Short Theatre” ti permette di vedere gruppi che operano
all'estero e che altrimenti non vedremmo mai in Italia. Nonostante
tutto Fabrizio fa sempre più fatica ad organizzare il festival.
Praticamente ogni anno ne viene messa in dubbio la produzione, poi
gli fanno sapere all'ultimo momento che può lavorarci di nuovo.
Autori
come Ravenhill o Crimp sono nomi ancora poco noti al vasto pubblico
italiano, o noti solo come autori emergenti. Eppure se si va a vedere
la loro produzione, ci si accorge che hanno scritto un numero
altissimo di opere e che nel loro paese rappresentano ormai dei
piccoli classici moderni. Tra gli autori che avete portato in scena,
ci sono poi nomi ancor meno masticati qui da noi, come David Greig o
Dennis Kelly. Cosa puoi dirci su questi autori?
Personalmente
ho preso parte a Taking Care of Baby di Dennis Kelly, che
trovo un testo interessante, ma ancor più interessante è stato
l'allestimento che ne ha saputo ricavare Fabrizio. Il testo di per sé
era piuttosto chiuso, ma Arcuri vi ha saputo intravedere un
potenziale per lavorare sul tema della verità.
Ho
letto che si tratta di un testo di teatro documentale, o “verbatim
drama” come usano definirlo in Inghilterra, pur non essendo basato
su di un fatto di cronaca. In che modo avete elaborato in scena il
tema della verità?
La
vicenda di cui parla Taking care of Baby ricorda il caso
Franzoni, dato che mostra il personaggio di una madre accusata di
aver ucciso il proprio figlio ed alla fine dello spettacolo vai via
senza una chiarimento limpido. Ti resta il dubbio che lei possa
essere colpevole. Su questa base Fabrizio ha sviluppato una
messinscena che giocava con l'immagine dell'attrice: ogni tanto lei
saliva sul palcoscenico, ma quando era fuori scena appariva la sua
immagine proiettata su di uno schermo. Ma non erano immagini
registrate, era la ripresa diretta dell'attrice che si trovava in una
cabina posta alle spalle del pubblico, ripresa da una telecamera. La
verità veniva messa in questione, perché il pubblico non sapeva
bene dove guardare l'attrice: nell'immagine proiettata che aveva
davanti, o in quella reale che aveva alle spalle. La maggior parte
degli spettatori tendeva a guardare lo schermo, senza neanche
accorgersi della cabina. Ma anche ad un livello più implicito e
subliminale, il pubblico era stimolato a chiedersi: “quando io
guardo, a cosa devo credere? Cosa è vero, cosa è finzione? La
verità dov'è? Sono ancora in grado di distinguere tra immagine e
realtà?”
E'
un tipo di effetto che Arcuri ha sperimentato anche mettendo in scena
Ravenhill.
Come
dicevamo prima, quello della verità è un quesito che di norma
riguarda l'attore, dando vita a risposte molto diverse. Come vive
l'attore questo processo in cui lo spettacolo pone volutamente al
pubblico dei dubbi sulla rappresentazione che vede?
L'attore
che si cimenta con questo tipo di teatro si pone gli stessi quesiti
del pubblico: “a cosa devo credere?” Non è sempre detto che devi
credere a ciò che dice la battuta, riempiendola di un carisma
attoriale che la battuta sembra richiedere. Spesso questa è una
trappola per l'attore. A volte magari devi credere a qualcos'altro
per raggiungere in scena una qualche forma di verità. Questo
passaggio viene focalizzato quando si mette in questione il rapporto
tra ciò che vedi e ciò che non vedi, come ha fatto Fabrizio nel
caso di Taking Care of Baby e come lui fa in generale usando
diverse soluzioni. Lui non è l'unico a lavorare su queste dinamiche,
ma di certo si tratta di un punto molto interessante per un attore.
Oltre
agli autori inglesi contemporanei, di recente vi siete misurati anche
con autori tedeschi, come Brecht e Fassbinder, che sono autori non
solo provenienti da una tradizione diversa, ma anche da epoche
diverse. Si tratta di una variazione rispetto al lavoro di cui
abbiamo parlato finora riguardo ai drammaturghi britannici?
No,
perché nel lavoro di Arcuri ogni scelta viene contestualizzata. Ogni
spettacolo partecipa ad un progetto, contribuendovi in maniera
propria fino a che quel progetto non viene esaurito. Di Brecht
abbiamo messo in scena i “Drammi Didattici”, e sinceramente mi
chiedo chi oggi si sogna di mettere in scena il teatro didattico di
Brecht. E come sempre, quando c'è un progetto pensato, lo spettacolo
tende a dividere, sollevando sempre però giudizi forti, come è
capitato a noi quando ci siamo cimentati con Brecht. Lavorare su
Fassbinder è stata un'altra scommessa ai limiti dell'incredibile,
artisticamente parlando, ma lo spettacolo che ne è venuto fuori -
Sangue sul Collo del Gatto - è un lavoro che ho trovato
assolutamente superlativo.
Abbiamo
compreso che lavorare con Arcuri per un attore significa mettere in
discussione la propria preparazione tecnica o accademica. Tu da che
percorso formativo provieni?
Un
percorso teatrale piuttosto normale. Ho studiato presso il Teatro
Europa di Parma, oltre ad un biennio formativo sostenuto dai
finanziamenti europei, poi sono stato preso subito dal Teatro Due, lo
stabile di Parma. Ho lavorato con Cerami, che aveva appena vinto un
Oscar per La Vita è Bella assieme a Benigni. Di lì hanno iniziato
ad aprirsi dei canali professionali a Roma. Ho lavorato in
televisione, collezionando piccole parti in un po' tutte le fiction.
Che
tipo di ruoli ti propongono in televisione?
Il
cattivo, sempre. Sono fresco reduce dalla registrazione di una
puntata di una fiction Rai, in cui ho dovuto impersonare un assassino
piuttosto truce. Forse dipende dal mio aspetto fisico, o forse dal
fatto che ultimamente in TV abbondino questo tipo di personaggi. Devo
dire che anche nella mia trafila teatrale non mi sono fatto mancare
nulla: sono stato il perfido Jean nella Signorina Julie di
Strindberg e persino Mefistofele in un bel lavoro sul Faust.
Invece,
retrospettivamente, che tipo di ruoli hai interpretato con
l'Accademia degli Artefatti?
E'
difficile incasellare in una tipologia precisa i personaggi di
Ravenhill, di Crimp o di Sarah Kane. Basta sfogliare le pagine dei
loro libri per notare che nella maggior parte dei casi non abbiano
dei connotati fissi, spesso nemmeno un nome. Molte volte sono
contrassegnati da numeri, altre volte non c'è nemmeno questo
appiglio, per cui è difficile persino attribuire una battuta ad un
personaggio o ad un altro.
In
effetti, si tratta di una tipologia di scrittura che rende difficile
o frustrante persino la lettura del testo, il che rende
particolarmente coraggiosa la scelta di proporsi al pubblico con una
drammaturgia che si mostra da subito sfuggente e difficile da
seguire.
E'
così, ma allo stesso tempo l'ambiguità del testo ti permette anche
di giocare molto sulle relazioni, in una misura assolutamente opposta
rispetto a quanto puoi fare con una forma di drammaturgia più
tradizionale, che prevede personaggi solidamente strutturati. Mi
viene in mente quando abbiamo messo in scena Attentati alla vita
di lei di Martin Crimp, un testo frammentato in quasi venti
quadri in cui la protagonista è fisicamente assente ma è presente in scena tramite le parole di
parenti o conoscenti, fino a formare un puzzle incomprensibile
sulla sua identità. In alcune
repliche notavamo che il pubblico si perdeva, mentre in altre
riusciva a seguirci bene, e questa divergenza non era dovuta alla
maggiore o minore intelligenza degli spettatori, naturalmente, ma al
tipo di relazioni che noi attori riuscivamo ad attivare ogni volta:
se la relazione è oggettiva, allora un testo del genere diventa
comprensibile ed il pubblico non solo segue ma si diverte fino a
ridere a crepapelle per l'assurdità della situazione; se la
relazione che instauri in scena non è oggettiva, il testo e lo
spettacolo diventano incomprensibili.
Dal
punto di vista della produzione degli spettacoli, si nota che
l'Accademia degli Artefatti è coinvolta in molte co-produzioni
attivate con altre compagnie. Questo dato che cosa indica? Che anche
una compagnia affermata come la vostra trova difficoltà a produrre
da sola i propri progetti, oppure le collaborazioni nascono solo
sulla base di affinità puramente artistiche con altri soggetti?
In
realtà nonostante i vari riconoscimenti, gli Artefatti possono
contare su pochissimi mezzi. Basti pensare che non hanno una sede e
devono chiedere ogni volta ospitalità a qualcuno per lavorare ad uno
spettacolo. I soldi necessari per realizzare un progetto sono sempre
molti di più di quelli che hai, ma anche al di là dei soldi oggi è
impossibile produrre senza stabilire delle relazioni. Altrimenti fai
come quei teatri pubblici che propongono la stessa stagione per dieci
anni di fila, ma questo non ha senso come proposta artistica, senza
contare il fatto economico, ovvero i soldi pubblici che questi teatri
ricevono senza fornire in cambio un'operazione culturale, per la
quale è necessario perseguire progetti nuovi.
In
conclusione, Arcuri nell'approcciarsi a questa nuova drammaturgia
europea (spesso definita “post-drammatica” perché prova di
componenti drammatiche tradizionali, come personaggi strutturati o
vicende compiute) parla a volte di “post-regia” o “non-regia”,
nel senso che ha messo a punto uno stile registico più leggero, meno
riconoscibile, meno protagonistico e meno riempitivo dello
spettacolo. Tu hai notato questo viraggio all'interno della cifra
artistica di Arcuri?
E'
un discorso di misura. Perché se da un lato è vero, è altrettanto
vero che la mano di Fabrizio è sempre riconoscibile. Tanto è che a
Roma ormai sono stati coniati dei neologismi. Spesso, scherzando, si
dice: “questa è una arcuriata”, per intendere un tipo di
soluzione scenica “alla Arcuri”. Al di là delle battute,
Fabrizio negli anni ha strutturato una cifra molto riconoscibile. Io
uno spettacolo di Fabrizio lo riconoscerei sempre, anche solo per
l'uso delle luci. Così, oggi lui tende a trattenersi o minimizzare
il suo intervento, ma questa affermazione va riferita soprattutto
agli spettacoli che allestiva nel primo periodo, che erano
mastodontici sul piano dell'effetto scenico. Ricordo che una volta
abbiamo dovuto trasportare in scena -con grande difficoltà- una
fontana che pesava quindici quintali. Oggi queste cose non le farebbe
più, perché non lo interessano più, perché sta lavorando su altre
componenti. Ora lui lavora molto sull'attore, partendo dalla sua
persona.
Gli
Artefatti sono un membro importante della giuria del Premio Scenario,
la più importante vetrina per gli artisti emergenti in Italia. Nella
maggior parte dei casi, ci si imbatte in giovani artisti provenienti
da un percorso formativo molto solido. In base alla tua esperienza,
cosa consiglieresti a questi giovani per inserirsi in maniera
duratura nel mondo professionistico: è meglio perdere o sporcare la
tecnica accademica, oppure no? In un teatro di avanguardia e di
ricerca come quello degli Artefatti, l'accademia trova posto oppure è
una zavorra da decostruire?
Io
credo che una formazione serva assolutamente. L'attore per me è un
artista versatile, che cioè almeno potenzialmente deve saper fare
delle cose molto diverse, dal repertorio all'avanguardia. Anche la
bistrattata dizione è un tassello importante e poi sul palco devi
saperci stare, altrimenti la recitazione diventa bidimensionale. Sono
cose per le quali è necessaria una formazione specifica. Poi la
tecnica è uno strumento: se un attore è intelligente, la usa come
vuole, anziché subirla come un limite. Non va nemmeno dimenticato
che poi ogni attore sceglie e fa il proprio percorso, che magari ti
porta verso un tipo di repertorio o verso un altro. Lì decide la
persona che sei, prima che l'attore, ed il modo che hai di intendere
questo mestiere. Io, ad esempio, in passato ho ricevuto proposte che
ho declinato, non per snobismo, ma perché del mestiere dell'attore
non mi interessa l'egocentrismo, l'apparire a tutti i costi. Mi
interessa interpretare, essere un tramite per il pubblico, che si
tratti di teatro di ricerca o di fiction televisiva. Hai una tecnica
che ti porti con te come strumento, ma assieme a questa porti la tua
persona, il tuo “zainetto” di valori personali: cosa ti piace,
cosa leggi, chi frequenti, quali sono i tuoi riferimenti. Il tuo
bagaglio di esperienze umane determina il tuo spessore artistico.
Ecco perché due attori con una medesima formazione possono leggere
la medesima pagina e provocare esiti diversi su di uno spettatore. E'
lo spessore umano che interviene nella comunicazione. E' lo spessore
umano che hai che ti porta a scegliere il teatro che fai. Io ho
scelto di fare teatro con Fabrizio Arcuri: al tempo avevo la fortuna
di lavorare parecchio, poi ho incontrato questo ragazzotto che
proponeva delle cose strambe, più difficili. E oggi posso dire di
non essermi mai pentito di questa scelta.
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