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LA DRAMMATURGIA INGLESE ATTRAVERSO L'OPERA DELL'ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI. Intervista a Fabrizio Croci

A cura di Paolo Verlengia

L' Accademia degli Artefatti si distingue sin dagli anni '90 per la proposta di spettacoli di ricerca ed innovazione. Attorno alla figura di Fabrizio Arcuri – fondatore, direttore artistico e regista – è passata negli ultimi quindici anni dalla proposta di spettacoli di forte impatto visuale ad un teatro di drammaturgia, focalizzato sulla proposta di autori contemporanei, in particolare britannici.
Abbiamo incontrato Fabrizio Croci, attore storico della formazione, in occasione dell'evento “L'Accademia degli Artefatti attraversa la drammaturgia inglese” organizzato a Pescara dal Florian Espace, all'interno del programma “Teatro d'Autore e altri linguaggi” che ha caratterizzato una ricchissima stagione 2015-2016.
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L'Accademia degli Artefatti è una compagnia molto corposa, capace di allestire spettacoli molto complessi, come anche di dare vita a performance basate su di un rapporto diretto ed intimo con il pubblico. Esattamente quanti componenti conta oggi?

Ho perso il conto, devo dire la verità. Qualche pezzo l'abbiamo perso per strada. Diciamo che è rimasto il nucleo storico, formato da 5-6 persone. Poi ci sono altri componenti non fissi che girano, che rientrano per collaborare in un determinato lavoro. In questa maniera, complessivamente raggiungiamo la decina di componenti.

Tu fai parte del nucleo storico della compagnia?

Fondamentalmente faccio parte del nucleo storico degli Artefatti, anche se formalmente non ho mai fatto parte della compagnia. Non sono uno dei soci e non rientro tra coloro che sono stati i fondatori ufficiali della compagnia. Sono subentrato in occasione del primo spettacolo di parola realizzato da Fabrizio Arcuri. Si trattava di Car, un testo di Chris O'Connel, un autore irlandese che lavora in Inghilterra. La compagnia veniva da un percorso molto più performativo, un teatro fatto prettamente di installazioni. Il testo di O'Connel comunque non ha niente a che fare con i drammi su cui gli Artefatti lavorano da qualche anno e che hanno una complessità drammaturgica maggiore. Quel testo sembrava la sceneggiatura di una puntata di una fiction americana dei giorni nostri. C'era una rapina ed io finivo per picchiare un altro personaggio. Da Car in poi ho preso parte a tutti gli altri spettacoli che gli Artefatti hanno elaborato su testi di autori inglesi contemporanei.
Quindi, per rispondere alla domanda, esattamente io entro nell'Accademia degli Artefatti dal 2000. Ma al di là del mio percorso personale, Car ha rappresentato un nuovo inizio per l'intera compagnia, perché ha preceduto tutti i progetti più celebri degli Artefatti. L'occasione che ha accompagnato questo passaggio coincide con una delle prime rassegne organizzate da Rodolfo Di Giammarco. Si chiamava “Trend”, una rassegna teatrale completamente dedicata al teatro britannico. Oltre a noi, c'erano gente come Ascanio Celestini, Roberto Latini, Paola Cortellesi ... Ogni artista o compagnia si cimentava con un testo praticamente inedito, scritto da un autore inglese emergente. Ricordo che Rodolfo rimase soddisfattissimo del nostro spettacolo e consigliò espressamente a Fabrizio Arcuri di rimanere su quel tipo di traccia artistica.

Quindi, tu subentri in occasione di una svolta artistica da parte dell'Accademia degli Artefatti. Sei in grado di ricostruire le motivazioni interne alla compagnia che hanno animato questa svolta?

La svolta dal teatro immagine a quello di parola credo corrispondesse ad una esigenza artistica di Fabrizio. A ben vedere, tutto il suo percorso artistico funziona per tappe, che per altro lui affronta molto lucidamente. Ad esempio, una volta esaurito un progetto come “Dress Code Reality”, Fabrizio oggi ha maturato un nuovo modo di vedere la scena e di andare in scena, e probabilmente in seguito esplorerà altre vie. Secondo me è giusto procedere così: per un artista cambiare, avere il coraggio di non rimanere sempre fedele allo stesso modello, è qualcosa di fondamentale. Un artista non deve esaurirsi in una sola cifra artistica. Sono sicuro che Fabrizio avrà molto da dire all'interno di un teatro molto diverso da quello che conosciamo ora e che gli riconosciamo. Tanto è vero che ultimamente lo stanno scritturando come regista nomi famosi quali Michele Placido, o enti importanti della scena ufficiale, come il Teatro di Roma.

Effettivamente una caratteristica lampante degli Artefatti è quella di cimentarsi con linguaggi diversi, contaminandoli spesso all'interno di uno stesso spettacolo. Guardando la produzione della vostra compagnia, colpisce questo procedere per progetti, ovvero non solo singoli spettacoli che si succedono, ma veri e propri cicli di spettacoli che afferiscono ad una tematica comune ben riconoscibile, contrassegnata per altro da titoli ben definiti.

E' vero. Si tratta di un approccio ben preciso al lavoro teatrale, che ha permesso di fare il lavoro che gli Artefatti hanno prodotto in questi anni sugli autori inglesi contemporanei. Senza un approccio per cicli o per progetti non sarebbe stato possibile esplorare un percorso dall'inizio alla fine. Arcuri non fa mai uno spettacolo per cavarsela quella volta al botteghino. Infatti succede anche che qualche volta vada male, come è capitato ad esempio con Tre pezzi facili di Martin Crimp. E' stata una esperienza strana, perché con questo spettacolo da una parte abbiamo vinto il Premio Ubu per il miglior testo straniero, ma dall'altra abbiamo conosciuto fortune alterne: si trattava di uno spettacolo per il quale una replica andava bene e dieci andavano male.

Come mai?

Perché era uno spettacolo concepito secondo una rete di comunicazioni che Arcuri aveva messo a punto per il progetto “Dress Code Reality”. Una sera trovavi la chiave, un'altra la cercavi ma non veniva. Considera che si tratta di uno spettacolo basato su tre pezzi, in tutto 6 pagine, ma solo il primo pezzo durava 40 minuti, perché tutto era giocato sulle pause, era una triangolazione con il pubblico che Arcuri aveva impostato sullo strumento della pausa. Quando non era oggettivo il tipo di relazione che noi attori andavamo a cercare insieme, la gente non capiva. Altre sere invece la gente faticava a tenere la pancia in mano per le risate, e bastava che tu alzassi un sopracciglio per provocare una risata fragorosa. Perché la relazione era tenuta sempre su di un filo teso. Arcuri è stato un pioniere in Italia per questo modo di fare teatro.

Hai citato Martin Crimp, un autore che avete portato voi per primi in Italia, e che voi avete tradotto in italiano per opera di Pieraldo Girotto, che tra l'altro è anche traduttore di Mark Ravenhill, oltre che attore storico dell'Accademia degli Artefatti. Crimp è più anziano di Ravenhill e di Sarah Kane, e forse potrebbe avere influenzato la loro scrittura.

Difficile dirlo. So per certo che Sarah Kane e Ravenhill erano buoni amici e che Sarah lo stimava molto.

Parliamo di Sarah Kane, un'autrice che fatalmente è entrata nel mito, per via di un percorso breve quanto intenso, non solo sul piano biografico: la sua drammaturgia si limita solo a cinque drammi. L'Accademia degli Artefatti ha portato in scena la Kane all'inizio degli anni 2000 ed anche in questo siete stati dei pionieri qui in Italia.

Era il 2004 e si trattava di Fedra's Love, uno dei testi più belli di Sarah Kane, a mio avviso. Se penso a quello spettacolo riesco ancora a sentire i brividi. Tra l'altro, è un testo “maledetto”. Appartiene a quella schiera ingloriosa di drammi bollati da una cattiva fama: si dice che porti “sfiga”. Se provi a metterlo in scena, lo spettacolo andrà male, per un motivo o per l'altro. Al di là degli aneddoti comunque, le probabilità che lo spettacolo vada male dipendono soprattutto dal fatto che il testo è difficile, pone delle difficoltà serie agli attori ed al regista. Per me, solo con uno come Arcuri è possibile mettere in scena Sarah Kane.

A questo punto siamo curiosi: come andò quello spettacolo?

Andò bene in molte piazze, ma ricordo anche che quando lo mettemmo in scena al Piccolo Eliseo di Roma non andò molto bene, per tutta una serie di motivi. Le prime tre file di spettatori si alzarono ed andarono via indignate già alla seconda scena, quella del rapporto incestuoso tra Fedra e Ippolito (per altro interpretato da me). Ad un certo punto, c'era un rapporto oro-genitale, che per altro nella nostra messinscena veniva solo alluso. Ma secondo me l'aspetto più rivoluzionario di quello spettacolo stava nell'allestimento. Per abbracciare più pubblico, Arcuri aveva deciso di aprire la struttura del palco. L'edizione originale prevedeva una scatola bianca in cui la scena veniva tagliata da delle ghigliottine e si avvicinava sempre più agli spettatori che erano dentro questa scatola. Per dare più visuale, in un teatro come quello dell'Eliseo, questa struttura a scatole era stata aperta, perdendo tantissimo dell'effetto intimo e voyeristico che è una caratteristica portante del teatro di Arcuri, in cui lo spettatore si sente sempre un po' dentro alla scena. La scruta, la ruba, non è uno spettatore passivo. In realtà il risultato perseguito è quello di dare responsabilità al pubblico, perché agisca attivamente rispetto alla scena. Ma questo va al di là di discorsi teorici sulla quarta parete: è proprio un modo di stare in scena da parte dell'attore. Che rapporto ho con il pubblico che mi guarda? È la prima domanda che si pone Arcuri. E questo lo ha portato a dei continui passi in avanti nel suo percorso artistico.

Phedra's love” è stato l'unico testo di Sarah Kane che avete messo in scena, ma è uno strumento di lavoro che la vostra compagnia utilizza spesso all'interno dei laboratori che organizza. Voi siete molto attivi anche nella proposta di laboratori rivolti ad attori, registi e drammaturghi, che voi strutturate a partire dalla nuova drammaturgia internazionale: Sarah Kane, Martin Crimp, Mark Ravenhill etc. Il ragionamento che si può ricavare, è che si tratta non solo di una nuova forma di scrittura, ma evidentemente di una nuova visione di teatro contenuta tra le righe, che crea nuove relazioni tra attore e testo, tra attore e pubblico, tra pubblico e scena, e che dunque ha bisogno di formare nuovi tipi di attori, spettatori e registi, perché non può essere approcciata con una vecchia forma mentale.

Sono d'accordo. Per quanto riguarda Sarah Kane per noi è stata fondamentale. Secondo me il lavoro che abbiamo fatto per Phedra's Love conteneva in nuce quella nuova cifra teatrale che Fabrizio Arcuri ha elaborato poi in tutta una serie di spettacoli successivi. Fu una esperienza del tutto diversa da Car, che pure figura come il nostro primo spettacolo di drammaturgia, ma non conteneva la complessità testuale dei testi di Crimp, Ravenhill o Kane. Questa rivelazione è avvenuta proprio tramite Sarah Kane. Car era un testo molto chiuso, persino didascalico, poco aperto a diverse interpretazioni o possibilità sceniche. I personaggi erano degli stereotipi e i dialoghi erano muscolari. Diventavano interessanti solo come farsa, come parodia che si può fare ad una scrittura americana di estrazione televisiva e commerciale. Le battute finivano tutte con “ok?” i personaggi erano dei cattivi, dei machos.
Quando ti confronti con Crimp, Ravenhill o Kane hai davanti una tessitura drammaturgica ben diversa. La scena tra Ippolito e Fedra testualmente è lunga due paginette, ma in scena durava 40 minuti, ma questo tipo di lavoro dal testo alla scena ce lo saremo portati dietro in tutto il nostro percorso successivo in termini di pausa, di silenzio, di rapporto con il pubblico. Lì è nata questa relazione scenica tra i due attori, che è una triangolazione con il pubblico.

Cosa si intende esattamente per "triangolazione" con il pubblico?

La mia reazione viene prima condivisa con lo spettatore; il mio partner di scena la percepisce dal pubblico prima che da me. E' questa dinamica che è al centro di tutto il concetto “Dress Code Reality” che Arcuri ha poi declinato e rimodulato continuamente dentro ai diversi spettacoli che rientrano nel progetto. Matteo Angius ne ha elaborato una cifra stilistica molto precisa. Ha creato un nuovo linguaggio scenico.

Immagino che si sia trattato comunque di un processo di metabolizzazione lento e graduale, più che di una folgorazione repentina.

Certo. Tutto è stato molto graduale. Dopo Phedra's Love avevamo colto questo nuovo linguaggio ma non ne avevamo ancora carpito la genetica precisa. Ogni tanto ci riuscivamo, altre volte ci sfuggiva. In questo senso, confrontarci con la scrittura di Crimp è stato importante come banco di prova, come scalino successivo in questa direzione. Tre pezzi Facili, Attentati alla vita di lei, poi abbiamo proseguito affrontando i testi di Ravenhill e infine di Crouch... Questa è stata la traccia del nostro percorso graduale. Si tratta di testi teatrali molto particolari, in cui non esiste l'idea di replica. Ogni sera vai a fare qualcosa di diverso da quanto hai fatto la sera precedente o in prova. Tutto dipende dal tipo di pubblico che incontrerai, perché lo spettacolo si costruisce al momento stabilendo una relazione con il pubblico presente ed è questo che detta la lunghezza di una pausa o la velocità di una battuta.

C'è un caso concreto che puoi raccontarci?

Un esempio efficace può essere rappresentato dalla scrittura di Ravenhill. Con lui ci siamo imbarcati in un'avventura quasi folle: rappresentare un ciclo di 14 testi, che lui aveva scritto sul tema della guerra, in relazione all'intervento dell'Inghilterra nella seconda Guerra del Golfo. Ognuno dei testi di questo ciclo prevede un diverso coefficiente di relazione con il pubblico.
Ci sono dei pezzi “chiusi”, da questo punto di vista, come Delitto e Castigo o Le Troiane, poi dei pezzi più aperti, come Guerra e Pace, in cui gli attori (che in quel caso erano Angius e Benedetti) si producevano in un continuo interfacciarsi con il pubblico. A secondo del singolo pezzo il pubblico cambiava funzione: ora impersonava gli iracheni, ora un tribunale militare. Oltre a questo, il pubblico veniva esposto a delle reazioni forti. E' una frase che molti usano spesso, ma qui si tratta di un lavoro diverso. E' facile dare per scontato il rapporto con il pubblico in teatro. Nei lavori che Arcuri ha curato a partire da questo tipo di drammaturgia ho potuto sperimentare realmente una responsabilizzazione del pubblico, un sua diversa partecipazione.

Tu sei un attore molto attivo su diversi piani. Qual'è la vera differenza che noti nei progetti dell'Accademia degli Artefatti? Qual è il tratto distintivo che li stacca dalla maggior parte delle altre proposte che vengono dal mondo dello spettacolo contemporaneo?

E' facile dire: “faccio teatro contemporaneo” e poi magari si mette in scena Shakespeare vestendo gli attori in giacca e cravatta o mettendogli il telefonino in mano, come uomini d'affari odierni. Personalmente, in quanto attore professionista, mi capita di fare le esperienze più diverse, dalla fiction al teatro di cartellone, e le trovo tutte importanti a loro modo. Allo stesso tempo, questo mi dà la possibilità di riscoprire ogni volta la profondità del lavoro che l'Accademia degli Artefatti svolge nella costruzione di un teatro moderno, inteso principalmente non tanto dal punto di vista della scenografia o del repertorio, ma come relazioni nuove che lo spettacolo stabilisce con il pubblico.

Arcuri riguardo al lavoro dell'attore pone spesso un problema, per il quale lui usa il termine “legittimità”? Si tratta nel complesso di mettere in discussione il ruolo dell'attore al giorno d'oggi. Tu da attore puoi definirci meglio questo concetto ed il tipo di lavoro che comporta?

A questo proposito, io penso che a qualsiasi attore farebbe bene lavorare con Fabrizio almeno in uno spettacolo, perché secondo me un attore che non ha fatto esperienza con Arcuri è come uno che sa guidare la macchina ma non ha mai guidato a Roma. Io sono di Parma, che è una cittadina molto tranquilla ed ordinata, ma per lavoro sono spesso a Roma. Ogni volta che torno dalle mie parti dico ai miei amici che dovrebbero andare a Roma “a fare un po' di training”. Se impari a districarti nel traffico di Roma allora impari a guidare veramente. E' una battuta, ma la uso come metafora. Intendo dire che un attore conosce una differenza simile quando arriva a lavorare con Fabrizio Arcuri. Lui toglie all'attore tutto quello che non è necessario, tutte le sovrastrutture che un attore si costruisce e si porta addosso quando va in scena. Si tratta sicuramente di un sistema di difese personali che ciascuno elabora per superare le proprie fragilità o semplicemente per gestire la tensione, ma sono accessori inutili dal punto di vista artistico e ti portano a formulare in scena le soluzioni più scontate o superficiali. Per questo motivo, Fabrizio parte da un principio: mettere la persona in una posizione di assoluto protagonismo scenico. E' dalla persona dell'attore che lui parte per costruire il personaggio. Per Arcuri il personaggio non è altro che un “contenitore di dinamiche”, ovvero un vertice di relazioni che il personaggio ha con gli altri elementi, come ad esempio gli altri personaggi del testo, ma anche il testo stesso. Per questo Arcuri parla di “legittimità”: recitare non è più una pretesa o una istanza che sta lì. L'attore per Arcuri non è colui che dice o che pensa: “ora vado sulla scena e recito questa prosa”. Arcuri è un regista che costringe sempre l'attore a mettersi in relazione con un insieme di variabili.

Puoi farci qualche esempio?

Prendiamo ad esempio il concetto o la categoria di “personaggio”. Arcuri non cerca di “vestire” l'attore, cioè nel suo lavoro teatrale non mette il personaggio addosso all'attore. Se tu devi impersonare un determinato ruolo, da attore sarai tentato dal bisogno di caratterizzare il tuo personaggio trovando degli escamotages di maniera: ad esempio, se devi recitare nella parte di un soldato, inizierai ad elaborare una camminata dura, una parlata fredda o una voce cattiva... Ad Arcuri tutto questo terreno scontato del mestiere di recitare non interessa. Lui ti costringe in ogni momento a chiederti: perché in questo momento accade questa cosa? che relazione c'è? dov'è lo spettatore? come passa questa battuta dall'altra parte del palco? se devi dire questa battuta, cosa ti porta a dirla? Secondo me è giusto pensare così, perché “tu attore” (o “tu persona”) non sai perché dici una data battuta. Il tuo personaggio sa perfettamente perché parla in una certa maniera, ma tu come attore devi cercare di giustificare ogni frase ed ogni parola. Questo processo di avvicinamento lento alla battuta da parte dell'attore fa sì che il personaggio venga leggermente spostato, quel tanto che ti permette di guardarlo sempre, senza mai perderlo di vista. Ogni tanto gli sei di spalle e gli aderisci; ogni tanto lo guardi frontalmente come una persona estranea, ma in ogni caso non arrivi mai ad indossarlo veramente. In questo modo viene eliminata dal lavoro dell'attore ogni componente di maniera e di esibizione, mentre si raggiunge un grado incredibile di verità. Parliamo di quella verità tanto ricercata dal teatro di regia a partire da Stanislavskji in poi, con il realismo o con il naturalismo, che però si è concretizzato in una pura ricerca di verità dove rimanevano sempre dei buchi aperti. Ma è il problema che rimane aperto: come si raggiunge la verità in teatro? Soprattutto in certi testi che non sono i drammi della tradizione, è particolarmente difficile per un attore raggiungere la verità scenica, perché i personaggi mutano fortemente dopo una o due pagine. Più che personaggi sono degli strumenti o dei pretesti, utilizzati per mettere in campo determinati fattori. Mi viene da pensare a Ravenhill, ed in particolare a testi come Mikado o ancor più a Delitto e Castigo ed a Guerra e Pace. Se tu pensi di limitare il tuo rapporto con il testo ad una analisi basata su dei concetti astratti, come l'esportazione della democrazia o il rapporto tra America ed Iraq, tra oppressore e oppresso, invasore ed invaso e così via, francamente non riesci ad arrivare in profondità. Sono contenuti che ci sono, ma non esauriscono il testo, anzi ne limitano il valore drammaturgico. Il fatto è che questi testi non sono come i drammi di Shakespeare, dove le battute sono così belle che lo spettatore può anche non guardare quello che fanno gli attori.

Quindi si tratta di una drammaturgia non solo nuova i termini di scrittura, ma che riscopre un ruolo nuovo per l'attore, non più accessorio o ausiliario, ma necessario. A proposito di Shakespeare, viene da pensare a Tim Crouch, il quale è soltanto l'ultimo dei drammaturghi inglesi contemporanei che in Italia abbiamo conosciuto grazie alle messinscene dell'Accademia degli Artefatti. Crouch ha realizzato delle riscritture molto ardite tratte dal canone shakespeariano, arrivando a comporre una pentalogia dal titolo “I Shakespeare” imperniata sui personaggi più bistrattati o in qualche modo meno popolari, dal mostro Calibano de “La Tempesta” a pure comparse come il Cinna del “Giulio Cesare” o Fiordipisello di “Sogno di una Notte di Mezz'estate”. In questa stagione tu reciti nei panni di Calibano, in quello che -cronologicamente parlando- è stato il primo testo della pentalogia di Tim Crouch. Cosa resta della magniloquenza della “Tempesta” shakespeariana in “Io Calibano” di Crouch?

Molto poco. E mi permetto di dire che se questo è il primo dei cinque pezzi che Crouch ha scritto su Shakespeare, questo fatto si vede in maniera molto chiara, perché è di gran lunga il testo scritto peggio. Faccio una sorta di piccolo sfogo personale, perché questo testo mi ha dato davvero del filo da torcere. Per altro, ha avuto un debutto fallimentare alla Biennale di Venezia: lo spettacolo non era pronto e lo abbiamo presentato sotto forma di studio. In più, il caso ha voluto che c'è stato un problema con i microfoni, oltre ad un difetto di comunicazione, ma fatto sta che ad un certo punto metà del pubblico si è alzata, gridando verso di me perché le battute non si sentivano. A metà spettacolo la maggior parte degli spettatori era andata via. Io ne ho viste tante, ma quella è stata un'esperienza veramente forte. Fortunatamente poi, io e Fabrizio abbiamo continuato a lavorarci su, fino a trovare il giusto calibro di toni, così nel suo debutto nella versione completa, a Prato, lo spettacolo ha avuto successo. Ma al di là del consenso, devo dire che è venuto fuori davvero un lavoro interessante, perché Arcuri ha fatto un lavoro notevole dal punto di vista drammaturgico.

In che modo Arcuri da regista ha fatto un lavoro di tipo drammaturgico?

Ricordiamoci sempre conto che Io Calibano è stato scritto da Crouch nell'idea di realizzare uno spettacolo per bambini, per cui è una riscrittura che gioca su componenti mirate ad una ricezione infantile: il testo prevede elementi come una macchinina telecomandata, ed il rapporto dialettico con Prospero prevede che lui sevizi Calibano a suon di pizzicotti, come un monello. Tutto ciò che in Shakespeare era parte di un dramma profondo, assume in questo testo un contorno sdrammatizzato, ed in larga parte depotenziato. Per questo motivo, non è semplice tirarne fuori uno spettacolo interessante per un pubblico maturo. Ecco perché dico che Arcuri ha fatto un lavoro di tipo drammaturgico, perché è riuscito a lavorare sulle stratificazioni di significato che nel testo erano contenute solo al di sotto della sua superficie. Poi lo spettacolo può anche non piacere, perché si tratta di uno spettacolo “sporco”, per certi versi. Qualcuno ci ha detto che abbiamo dissacrato Shakespeare, non comprendendo però l'operazione che è stata fatta, perché di questo passo diventa dissacrante anche un testo geniale come Rosencrantz e Guilderstern sono morti di Stoppard. Ora, Stoppard aveva voluto giocare su due “non-personaggi” creati da Shakespeare. In termini profani, oggi li potremmo definire due “sfigati”, perché vengono uccisi in quanto complici inconsapevoli di giochi politici molto più grandi di loro. Crouch fa un'operazione simile, andando a trovare dei non-personaggi come Cinna ad esempio, che muore solo perché viene scambiato per un suo omonimo più famoso che era stato tra i cospiratori di Cesare, mentre lui è Cinna il poeta. Così nel Giulio Cesare di Shakespeare Cinna è un personaggio che ha una sola battuta, per altro poco significativa sul piano letterario, perché si limita ad urlare ai suoi assassini che lui non è il Cinna che stanno cercando e poi viene ucciso subito ugualmente. La stessa cosa avviene con Fiordipisello, che in Sogno di una notte di mezz'estate ha solo una battuta, anzi neanche, perché dice solo “Eccomi”.

Nel caso di “Io Calibano” qual è stato il lavoro che avete fatto con Arcuri?

La bravura principale di Fabrizio sta nel fatto che lui per trarre uno spettacolo interessante da un testo, non lo stravolge con la propria visione operando tagli e aggiunte. Al contrario, lui cerca una chiave scenica affidandosi al testo. Nel caso di Io Calibano, si è posto delle domande semplici: cosa vuole da me questo autore? Cosa vuole da me questo testo? Poi è andato a leggerlo, nel senso di carpire delle informazioni che sono nascoste tra le parole. E così sono venuti fuori degli elementi fondamentali ai fini scenici, che ti aiutano anche più delle semplici battute. Ad esempio, il fatto che Calibano era un africano che abitava su di un'isola, la quale viene investita da una tempesta che porta con sé un pezzo di mondo occidentale, una intera corte di persone potenti che devono spartirsi dei regni con Prospero. E il confronto con Prospero è impari, perché lui ha dei poteri magici. Calibano è la vera vittima di tutta questa lotta: viene prima sfruttato, poi maltrattato e alla fine, quando tutti fanno la pace e partono verso una nuova vita, lo lasciano da solo sull'isola. In questo modo appare chiaro lo scenario di una colonizzazione. Nello spettacolo questo scenario prende forma: io mi ritrovo solo sul palco con dei resti che provengono da un passato migliore (una radio rotta, dei libri che non so leggere). Ma soprattutto questo scenario apre un collegamento illuminante con la drammaturgia di Ravenhill, dove il tema di fondo è quello dell'esportazione della democrazia occidentale. In questo modo, Io Calibano diventa davvero un'operazione che riversa nello scenario contemporaneo tutto il potenziale politico della Tempesta di Shakespeare.

Siete arrivati al progetto “I Shakespeare” alla fine di un intero percorso di conoscenza con l'opera di Tim Crouch. Vi siete misurati per la prima volta con Crouch nel 2007 all'interno di un progetto teatrale denominato “Ab-Uso”. Puoi raccontarci le motivazioni di quell'operazione?

In effetti la tematica dell'abuso era molto presente nel testo di Crouch su cui abbiamo lavorato la prima volta, che si intitolava An Oak Tree. Crouch stesso recitava in prima persona in questo spettacolo, quando veniva realizzato in Inghilterra. L'abusato era l'attore, nel senso che per ogni rappresentazione veniva chiamato un attore che non conosceva il testo, per cui si trovava a costruire una storia che non conosceva ed in ogni momento non sapeva cosa sarebbe successo poi. La storia era giocata sulla memoria di un evento vissuto a ritroso e che si arriva a capire solo alla fine. Ma soprattutto, si trattava di uno spettacolo giocato interamente sulle relazioni, perché molto veniva affidato all'improvvisazione, parola che normalmente detesto, ma che lì veniva riempita di senso. Gli attori coinvolti in questa “esperienza al buio” reagiscono in modo molto differente: c'è chi sta al gioco, chi si chiude e magari se la prende, chi riesce a partecipare in maniera più creativa.

Dopo “An Oak Tree”, avete messo in scena “My Arm”, un altro lavoro molto originale firmato da Tim Crouch. Quali erano le caratteristiche principali di quello spettacolo?

E' uno spettacolo sotto forma di monologo, portato in scena da Matteo Angius. Dal punto di vista del contenuto si tratta di una storia dai connotati assurdi, ma il racconto è formalmente più lineare rispetto ad An Oak Tree. Fondamentalmente viene narrata la vicenda di un tipo che decide da quando è bambino di tenere un braccio alzato, finché da adulto ad un certo punto il braccio gli va in necrosi e lui muore.

Dal punto di vista della messinscena, si tratta di lavori che portano al coinvolgimento attivo del pubblico.

Senza dubbio. Infatti spesso al di là delle vicende che il testo racconta, viene “riscritto” il ruolo dello spettatore, che viene investito di compiti più difficili. Viene responsabilizzato e stimolato, soprattutto dal punto di vista intellettivo. Si tratta di una tipologia diversa di spettacolo, che non consiste più in una prova di bravura che l'attore serve ad un pubblico di osservatori esterni, senza con ciò nulla togliere ad un teatro che si basa su elementi più classici. Personalmente io amo ogni forma di teatro. Dico semplicemente che esistono forme di teatro in cui il testo contiene già in sé una sua rappresentabilità, a prescindere dal lavoro che l'attore svolge per stabilire una relazione particolare con il pubblico; invece testi come quelli di Crouch o di Ravenhill presi in sé sarebbero quasi irrappresentabili senza l'elaborazione di un sistema di relazioni e di dinamiche a volte impreviste ed imprevedibili.

Dalle tue parole sembra emergere costante una particolare predilezione per Ravenhill. E' una impressione realistica?

Forse è vero. Di certo Ravenhill è un autore che mi colpisce da molti punti di vista. Penso ad esempio al fatto che quando lui ha scritto il ciclo Spara/Trova il tesoro/Ripeti qui in Italia ed in molti paesi d'Europa eravamo coinvolti nella guerra in Iraq, anche se preferivamo utilizzare una parola ambigua come peacekeeping. Io non ricordo un autore italiano che si sia sentito stimolato dagli eventi a scrivere un testo su quella situazione di guerra dissimulata. Certo, siamo abituati al fatto che in Inghilterra gli artisti si muovano sempre prima di noi nel descrivere il presente, eppure questa distanza dei nostri autori mi ha colpito. Io una risposta me la sono data: è perché noi non percepivamo di essere in guerra. Ci eravamo all'atto pratico, ma vivevamo e continuavamo a vivere come se non fossimo in guerra. Nella nostra consapevolezza collettiva come società italiana, eravamo come anestetizzati. Credo che soprattutto la drammaturgia sia debole da questo punto di vista.

E' la questione di un teatro di impegno civile, che forse in Italia, laddove si presenti, si rivolge soprattutto al passato, alla rivalutazione del patrimonio storico o al valore della memoria. Forse un'eccezione può essere rappresentata negli ultimi anni da Massini.

Sono d'accordo. Citerei anche un giovane autore come Davide Carnevali. Ma forse al di là dei casi singoli, perché vengano stimolati dei nuovi autori è necessaria la presenza incoraggiante di registi capaci di costruire un nuovo linguaggio teatrale. Ecco perché sono così importanti delle operazioni come quella di Arcuri sui drammaturghi del nostro tempo.

Tra l'altro, tu hai conosciuto personalmente qualcuno di questi drammaturghi, se non sbaglio. Che tipi sono?

Ho conosciuto Ravenhill e Crimp. Ravenhill è un simpaticone, mentre Crimp è un tipo molto più riservato, persino raffinato direi. Di Ravenhill ho un ricordo molto divertente: eravamo a Napoli assieme a Pavolini, che avrebbe poi curato una edizione italiana dei suoi testi. Pavolini gli faceva delle domande sul testo, sul significato preciso di certi passaggi, per capire che cosa lui volesse dire veramente. Ravenhill era quasi disinteressato, una spiegazione o l'altra gli sembrava giusta. Lui diceva: “io ho scritto questo testo. Ora voi potete farne quello che volete e il pubblico può pensarne quello che vuole”. Crimp è un osservatore formidabile. Ricordo che venne a vederci quando mettemmo in scena Tre Pezzi Facili e ci disse una cosa interessante: uno dei pezzi nella nostra versione durava 45 minuti, mentre in Inghilterra gli attori inglesi di norma lo esaurivano in un quarto d'ora. In effetti noi lavoravamo molto sulla dilatazione, perché ci sembrava l'unica chiave possibile, mentre evidentemente gli inglesi lo recitavano “botta e risposta”, anche se mi chiedo come.

Scorrendo velocemente i profili degli autori britannici che avete portato alla luce negli ultimi anni, colpisce un dato, che si ricollega in maniera interessante a questo discorso: si tratta in molti casi di attori, che ad un certo punto del loro percorso hanno iniziato anche a scrivere. Spesso nelle compagnia britanniche oltre ad un regista è presente un dramaturg, che scrive per una compagnia che conosce e con cui collabora costantemente. In Italia, per tradizione, dal dopoguerra in poi, la figura del regista è chiamata al compito di ricoprire un compito “d'autore”. Gli autori veri e propri rappresentano una categoria distaccata dal lavoro di palcoscenico e questo lavoro di connessione con gli attori è demandato al regista, mentre una tradizione come quella inglese da sempre vive di una connessione diretta tra autore e scena.

E' un'analisi molto giusta. Personalmente, mi auguro che lo scenario qui in Italia cambi, perché trovo che il ruolo del drammaturgo sia molto importante. Vorrei aggiungere a riguardo che in tutto questo c'è una responsabilità dello stato, che in Italia non aiuta il teatro, portando a questo tipo di situazione. Così, anche operazioni importanti su autori sconosciuti o quasi, come quella fatta dall'Accademia degli Artefatti in questi anni, resta allo stato di un teatro di nicchia, ed in futuro potrebbe trovare sempre meno spazio.

Fabrizio Arcuri è responsabile anche di “Short Theatre”, un festival teatrale di grande interesse proprio per la proposta di autori e spettacoli innovativi. Forse lo strumento del festival nasce dall'esigenza di coinvolgere un pubblico più vasto attorno a proposte che altrimenti sarebbero relegate ad uno spazio di nicchia o per soli addetti ai lavori.

Di certo “Short Theatre” ti permette di vedere gruppi che operano all'estero e che altrimenti non vedremmo mai in Italia. Nonostante tutto Fabrizio fa sempre più fatica ad organizzare il festival. Praticamente ogni anno ne viene messa in dubbio la produzione, poi gli fanno sapere all'ultimo momento che può lavorarci di nuovo.

Autori come Ravenhill o Crimp sono nomi ancora poco noti al vasto pubblico italiano, o noti solo come autori emergenti. Eppure se si va a vedere la loro produzione, ci si accorge che hanno scritto un numero altissimo di opere e che nel loro paese rappresentano ormai dei piccoli classici moderni. Tra gli autori che avete portato in scena, ci sono poi nomi ancor meno masticati qui da noi, come David Greig o Dennis Kelly. Cosa puoi dirci su questi autori?

Personalmente ho preso parte a Taking Care of Baby di Dennis Kelly, che trovo un testo interessante, ma ancor più interessante è stato l'allestimento che ne ha saputo ricavare Fabrizio. Il testo di per sé era piuttosto chiuso, ma Arcuri vi ha saputo intravedere un potenziale per lavorare sul tema della verità.

Ho letto che si tratta di un testo di teatro documentale, o “verbatim drama” come usano definirlo in Inghilterra, pur non essendo basato su di un fatto di cronaca. In che modo avete elaborato in scena il tema della verità?

La vicenda di cui parla Taking care of Baby ricorda il caso Franzoni, dato che mostra il personaggio di una madre accusata di aver ucciso il proprio figlio ed alla fine dello spettacolo vai via senza una chiarimento limpido. Ti resta il dubbio che lei possa essere colpevole. Su questa base Fabrizio ha sviluppato una messinscena che giocava con l'immagine dell'attrice: ogni tanto lei saliva sul palcoscenico, ma quando era fuori scena appariva la sua immagine proiettata su di uno schermo. Ma non erano immagini registrate, era la ripresa diretta dell'attrice che si trovava in una cabina posta alle spalle del pubblico, ripresa da una telecamera. La verità veniva messa in questione, perché il pubblico non sapeva bene dove guardare l'attrice: nell'immagine proiettata che aveva davanti, o in quella reale che aveva alle spalle. La maggior parte degli spettatori tendeva a guardare lo schermo, senza neanche accorgersi della cabina. Ma anche ad un livello più implicito e subliminale, il pubblico era stimolato a chiedersi: “quando io guardo, a cosa devo credere? Cosa è vero, cosa è finzione? La verità dov'è? Sono ancora in grado di distinguere tra immagine e realtà?”
E' un tipo di effetto che Arcuri ha sperimentato anche mettendo in scena Ravenhill.

Come dicevamo prima, quello della verità è un quesito che di norma riguarda l'attore, dando vita a risposte molto diverse. Come vive l'attore questo processo in cui lo spettacolo pone volutamente al pubblico dei dubbi sulla rappresentazione che vede?

L'attore che si cimenta con questo tipo di teatro si pone gli stessi quesiti del pubblico: “a cosa devo credere?” Non è sempre detto che devi credere a ciò che dice la battuta, riempiendola di un carisma attoriale che la battuta sembra richiedere. Spesso questa è una trappola per l'attore. A volte magari devi credere a qualcos'altro per raggiungere in scena una qualche forma di verità. Questo passaggio viene focalizzato quando si mette in questione il rapporto tra ciò che vedi e ciò che non vedi, come ha fatto Fabrizio nel caso di Taking Care of Baby e come lui fa in generale usando diverse soluzioni. Lui non è l'unico a lavorare su queste dinamiche, ma di certo si tratta di un punto molto interessante per un attore.

Oltre agli autori inglesi contemporanei, di recente vi siete misurati anche con autori tedeschi, come Brecht e Fassbinder, che sono autori non solo provenienti da una tradizione diversa, ma anche da epoche diverse. Si tratta di una variazione rispetto al lavoro di cui abbiamo parlato finora riguardo ai drammaturghi britannici?

No, perché nel lavoro di Arcuri ogni scelta viene contestualizzata. Ogni spettacolo partecipa ad un progetto, contribuendovi in maniera propria fino a che quel progetto non viene esaurito. Di Brecht abbiamo messo in scena i “Drammi Didattici”, e sinceramente mi chiedo chi oggi si sogna di mettere in scena il teatro didattico di Brecht. E come sempre, quando c'è un progetto pensato, lo spettacolo tende a dividere, sollevando sempre però giudizi forti, come è capitato a noi quando ci siamo cimentati con Brecht. Lavorare su Fassbinder è stata un'altra scommessa ai limiti dell'incredibile, artisticamente parlando, ma lo spettacolo che ne è venuto fuori - Sangue sul Collo del Gatto - è un lavoro che ho trovato assolutamente superlativo.

Abbiamo compreso che lavorare con Arcuri per un attore significa mettere in discussione la propria preparazione tecnica o accademica. Tu da che percorso formativo provieni?

Un percorso teatrale piuttosto normale. Ho studiato presso il Teatro Europa di Parma, oltre ad un biennio formativo sostenuto dai finanziamenti europei, poi sono stato preso subito dal Teatro Due, lo stabile di Parma. Ho lavorato con Cerami, che aveva appena vinto un Oscar per La Vita è Bella assieme a Benigni. Di lì hanno iniziato ad aprirsi dei canali professionali a Roma. Ho lavorato in televisione, collezionando piccole parti in un po' tutte le fiction.

Che tipo di ruoli ti propongono in televisione?

Il cattivo, sempre. Sono fresco reduce dalla registrazione di una puntata di una fiction Rai, in cui ho dovuto impersonare un assassino piuttosto truce. Forse dipende dal mio aspetto fisico, o forse dal fatto che ultimamente in TV abbondino questo tipo di personaggi. Devo dire che anche nella mia trafila teatrale non mi sono fatto mancare nulla: sono stato il perfido Jean nella Signorina Julie di Strindberg e persino Mefistofele in un bel lavoro sul Faust.

Invece, retrospettivamente, che tipo di ruoli hai interpretato con l'Accademia degli Artefatti?

E' difficile incasellare in una tipologia precisa i personaggi di Ravenhill, di Crimp o di Sarah Kane. Basta sfogliare le pagine dei loro libri per notare che nella maggior parte dei casi non abbiano dei connotati fissi, spesso nemmeno un nome. Molte volte sono contrassegnati da numeri, altre volte non c'è nemmeno questo appiglio, per cui è difficile persino attribuire una battuta ad un personaggio o ad un altro.

In effetti, si tratta di una tipologia di scrittura che rende difficile o frustrante persino la lettura del testo, il che rende particolarmente coraggiosa la scelta di proporsi al pubblico con una drammaturgia che si mostra da subito sfuggente e difficile da seguire.

E' così, ma allo stesso tempo l'ambiguità del testo ti permette anche di giocare molto sulle relazioni, in una misura assolutamente opposta rispetto a quanto puoi fare con una forma di drammaturgia più tradizionale, che prevede personaggi solidamente strutturati. Mi viene in mente quando abbiamo messo in scena Attentati alla vita di lei di Martin Crimp, un testo frammentato in quasi venti quadri in cui la protagonista è fisicamente assente ma è presente in scena tramite le parole di parenti o conoscenti, fino a formare un puzzle incomprensibile sulla sua identità. In alcune repliche notavamo che il pubblico si perdeva, mentre in altre riusciva a seguirci bene, e questa divergenza non era dovuta alla maggiore o minore intelligenza degli spettatori, naturalmente, ma al tipo di relazioni che noi attori riuscivamo ad attivare ogni volta: se la relazione è oggettiva, allora un testo del genere diventa comprensibile ed il pubblico non solo segue ma si diverte fino a ridere a crepapelle per l'assurdità della situazione; se la relazione che instauri in scena non è oggettiva, il testo e lo spettacolo diventano incomprensibili.

Dal punto di vista della produzione degli spettacoli, si nota che l'Accademia degli Artefatti è coinvolta in molte co-produzioni attivate con altre compagnie. Questo dato che cosa indica? Che anche una compagnia affermata come la vostra trova difficoltà a produrre da sola i propri progetti, oppure le collaborazioni nascono solo sulla base di affinità puramente artistiche con altri soggetti?

In realtà nonostante i vari riconoscimenti, gli Artefatti possono contare su pochissimi mezzi. Basti pensare che non hanno una sede e devono chiedere ogni volta ospitalità a qualcuno per lavorare ad uno spettacolo. I soldi necessari per realizzare un progetto sono sempre molti di più di quelli che hai, ma anche al di là dei soldi oggi è impossibile produrre senza stabilire delle relazioni. Altrimenti fai come quei teatri pubblici che propongono la stessa stagione per dieci anni di fila, ma questo non ha senso come proposta artistica, senza contare il fatto economico, ovvero i soldi pubblici che questi teatri ricevono senza fornire in cambio un'operazione culturale, per la quale è necessario perseguire progetti nuovi.

In conclusione, Arcuri nell'approcciarsi a questa nuova drammaturgia europea (spesso definita “post-drammatica” perché prova di componenti drammatiche tradizionali, come personaggi strutturati o vicende compiute) parla a volte di “post-regia” o “non-regia”, nel senso che ha messo a punto uno stile registico più leggero, meno riconoscibile, meno protagonistico e meno riempitivo dello spettacolo. Tu hai notato questo viraggio all'interno della cifra artistica di Arcuri?

E' un discorso di misura. Perché se da un lato è vero, è altrettanto vero che la mano di Fabrizio è sempre riconoscibile. Tanto è che a Roma ormai sono stati coniati dei neologismi. Spesso, scherzando, si dice: “questa è una arcuriata”, per intendere un tipo di soluzione scenica “alla Arcuri”. Al di là delle battute, Fabrizio negli anni ha strutturato una cifra molto riconoscibile. Io uno spettacolo di Fabrizio lo riconoscerei sempre, anche solo per l'uso delle luci. Così, oggi lui tende a trattenersi o minimizzare il suo intervento, ma questa affermazione va riferita soprattutto agli spettacoli che allestiva nel primo periodo, che erano mastodontici sul piano dell'effetto scenico. Ricordo che una volta abbiamo dovuto trasportare in scena -con grande difficoltà- una fontana che pesava quindici quintali. Oggi queste cose non le farebbe più, perché non lo interessano più, perché sta lavorando su altre componenti. Ora lui lavora molto sull'attore, partendo dalla sua persona.

Gli Artefatti sono un membro importante della giuria del Premio Scenario, la più importante vetrina per gli artisti emergenti in Italia. Nella maggior parte dei casi, ci si imbatte in giovani artisti provenienti da un percorso formativo molto solido. In base alla tua esperienza, cosa consiglieresti a questi giovani per inserirsi in maniera duratura nel mondo professionistico: è meglio perdere o sporcare la tecnica accademica, oppure no? In un teatro di avanguardia e di ricerca come quello degli Artefatti, l'accademia trova posto oppure è una zavorra da decostruire?

Io credo che una formazione serva assolutamente. L'attore per me è un artista versatile, che cioè almeno potenzialmente deve saper fare delle cose molto diverse, dal repertorio all'avanguardia. Anche la bistrattata dizione è un tassello importante e poi sul palco devi saperci stare, altrimenti la recitazione diventa bidimensionale. Sono cose per le quali è necessaria una formazione specifica. Poi la tecnica è uno strumento: se un attore è intelligente, la usa come vuole, anziché subirla come un limite. Non va nemmeno dimenticato che poi ogni attore sceglie e fa il proprio percorso, che magari ti porta verso un tipo di repertorio o verso un altro. Lì decide la persona che sei, prima che l'attore, ed il modo che hai di intendere questo mestiere. Io, ad esempio, in passato ho ricevuto proposte che ho declinato, non per snobismo, ma perché del mestiere dell'attore non mi interessa l'egocentrismo, l'apparire a tutti i costi. Mi interessa interpretare, essere un tramite per il pubblico, che si tratti di teatro di ricerca o di fiction televisiva. Hai una tecnica che ti porti con te come strumento, ma assieme a questa porti la tua persona, il tuo “zainetto” di valori personali: cosa ti piace, cosa leggi, chi frequenti, quali sono i tuoi riferimenti. Il tuo bagaglio di esperienze umane determina il tuo spessore artistico. Ecco perché due attori con una medesima formazione possono leggere la medesima pagina e provocare esiti diversi su di uno spettatore. E' lo spessore umano che interviene nella comunicazione. E' lo spessore umano che hai che ti porta a scegliere il teatro che fai. Io ho scelto di fare teatro con Fabrizio Arcuri: al tempo avevo la fortuna di lavorare parecchio, poi ho incontrato questo ragazzotto che proponeva delle cose strambe, più difficili. E oggi posso dire di non essermi mai pentito di questa scelta.

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