PIPPO DI
MARCA: UNA PENULTIMA ECLISSI
Il
decano dell'avanguardia romana torna in scena con un nuovo lavoro
ispirato allo scrittore cileno Roberto Bolano.
Per chi ama
le coincidenze, le simbologie numerologiche o le interpretazioni
alchemiche non sarà parso casuale il ritorno di Pippo Di Marca sul
palco del Florian nella sera del 21 marzo, quasi ad officiare lo
sbocciare della primavera e l'irrompere del nuovo sole dopo il
disgelo. A corroborare questa chiave di lettura arcana, val la pena
ricordare anche l'eclissi solare che ha fatto da introduzione
all'evento nella giornata precedente, ed allora anche per i più
scettici il sortilegio è servito in soluzione irresistibile.
Come in un
eterno ritorno, Di Marca torna sul palco per tornare nuovamente a
Bolano, lo scrittore-culto a cui ha dedicato i suoi lavori teatrali
negli ultimi anni. Come in un dedalo concentrico, in cui il ritorno
su rotte già percorse è comunque incedere, è comunque avanzare, è
comunque viaggio. “Passeggero Bolano (La Nave dei Sei
Personaggi)”, l'ultima fatica della serie bolanesca del maestro
Di Marca, comunica già dal titolo il segno di questo viaggiare, un
errare criptico lungo sentieri sconosciuti, dove l'ignoto lascia
emergere echi in cui il noto rivive e prolifera trasmutando. Ed in
effetti non c'è definizione più esaustiva per un artista come
Bolano se non quella di “esule”: cileno, cresciuto a Los Angeles
e vissuto in Messico, quindi tardivamente trasferitosi in Spagna,
disperdendo o rifrangendo la sua ispirazione artistica tra una serie
“romanzesca” di mestieri improbabili, alternati a periodi di
semi-indigenza. La morte prematura e beffarda sembra voler
pervicacemente confermare per Bolano il profilo di una vita
memorabile, un destino da artista puro.
“Romanzesca”
per certi versi si può dopo tutto denominare anche la cifra del
teatro di Pippo Di Marca, da sempre refrattaria al lavoro deputato ai
professionisti del teatro dalla tradizione (soprattutto italica):
mettere in scena un testo teatrale predisposto specificatamente per
il teatro da un drammaturgo, da uno specialista. Di Marca, sin
dall'inizio della sua attività, ha preferito la sperimentazione
scenica di linguaggi non teatrali, con il palcoscenico che si tramuta
in una sorta di laboratorio o di Wunderkammer colma di
alambicchi, in cui il regista-autore trasforma e reinventa brandelli
di romanzi e di poemi. Anzi, secondo questa chiave, il teatro si
distingue non più come il tempio del drammaturgo o dell'attore, né
come scatola magica di trucchi e mirabilia tecnicali, ma come
placenta creatrice più che creativa, capace di dare corpo, voce e
vita ai personaggi, ai fantasmi ed alle presenze che il testo scritto
può soltanto evocare.
In
Passeggero Bolano Di Marca sembra voler portare alle estreme
conseguenze questa concezione artistica di fondo. In primo luogo va
detto che si tratta del primo lavoro in cui Di Marca non elabora una
scrittura scenica dal labirintico corpus letterario di Bolano, bensì
crea di propria mano una partitura del tutto originale, in cui Bolano
ed il suo mondo immaginario divengono personaggi agiti dallo stesso
Di Marca. La parola invade la scena e la domina dal primo all'ultimo
istante dello spettacolo, come un flusso fluido di sonorità
significante che viene ben reso dall'immagine di un mare mobile
proiettato sullo schermo di fondale. Un quadro dinamico, sinuoso,
quasi ipnotico nelle sue onde perpetue, eppure infranto -come la tela
di Fontana- nella zona più centrale da un cono d'ombra, ove si fa
largo una nicchia immateriale: il posto dell'attore, benché
detronizzato e reinventato dal “veleno” dell'avanguardia,
presagito anzitempo dalla presenza di un microfono. L'attore incarne
ed ossa è inizialmente in scena benché fuori scena, isolato
nell'angolo più in ombra del palco (mantenuto a vista dal sipario
rigorosamente aperto), seduto ad un tavolino come il casuale
avventore di un bar, visibile dal pubblico che ancora si sistema in
sala e quasi non visto in virtù di tale marginalità. Così i primi
minuti dello spettacolo confermano la dimensione di un viaggio
straniante in cui la voce di Di Marca si propaga in versione
registrata, ovvero dissociata in termini di rappresentazione da ogni
fonte sonora pur presente e pur visibile agli occhi dello spettatore:
il microfono, che resta inane al centro della scena, ed il corpo
dell'attore a fargli il paio. Questi è un Pippo Di Marca a metà fra
la sfinge ed il dandy post-moderno, vestito in un virginale total
look bianco, dissacrato dalla presenza pop di gadget
stridenti, come un cappellino da baseball o un paio di vistosi
occhialoni da sole in stile anni '70. Ben presto l'effluvio di parole
viene accompagnato dall'azione dell'attore, che entra nel quadro
acqueo della proiezione e -con movimenti sincopati- ne occupa prima
una porzione, infine l'interezza, fino a prendere possesso del
microfono, finalmente restituito al suo ruolo e sottratto al ruolo
lugubre di scheletro scenografico, come l'albero beckettiano
sull'orizzonte di Vladimiro ed Estragone. Il racconto prosegue quindi
senza sosta né cesure, ma alla voce sintetica della registrazione si
sostituisce ora quella umana dell'attore-autore. Non sorprende più a
questo punto della performance l'assenza di vincoli realistici o
narrativi, perché più che del racconto di una vicenda si tratta di
un viaggio verbale più simile alla modernità del flusso di
coscienza, eppure non dimentico della potenza del poema epico. Mentre
la scena si fa statica è la scrittura a farsi danza, coreografia di
immagini ed accadimenti, ma anche di suoni, di toni, di sillabe. La
performance di Di Marca si dimostra notevole sul piano della tenuta
sotto almeno due punti di vista differenti: in primo luogo, in
termini di precisione ed incisività, nel reggere il confronto
repentino con la registrazione; in secondo luogo, sul piano
temporale, visto che la pasta vocale -sottoposta all'arduo compito di
reggere da sola la scena- non accusa fisiologiche curve, anzi marcia
spedita in un crescendo di sapiente maestria. Eppure nei territori
anarchici di questa surrealtà si fa lentamente largo la geometria di
un disegno studiato con rigore. La miscela indistinta di inchiostro e
sangue, e cioè di arte e vita, affermata carnalmente da Bolano (dopo
gli artisti che Di Marca chiama altrove i Cavalieri dell'Apocalisse)
si mescola a sua volta con la geometria pirandelliana dei sei
personaggi che smontano la costruzione dell'illusione teatrale
imponendosi all'autore e rubandogli il tempo.
Con il
favore del nuovo sole -menzionato all'inizio- Passeggero Bolano
ha aperto il trittico di “Teatro e Letteratura” che caratterizza
la rassegna Flussi 2015 del Florian. Resta da chiedersi se si sia
trattato di una operazione di smarcamento, un fragoroso commiato da
parte di Di Marca nei confronti del nume Bolano. E se è vero che non
v'è certezza nel regno dell'alchimia, qualche sentore lascia
intendere che i tempi degli addii e delle ultime lune non siano
ancora maturi. Appuntamento dunque al prossimo capitolo del viaggio
bolanesco sul vascello “metateatrale” del nocchiero Di Marca.
Paolo
Verlengia
“PASSEGGERO
BOLANO (La Nave dei Sei Personaggi)” di/con Pippo Di Marca, Florian
Espace, 20 marzo 2015
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