"Caprò"
tra vita, morte e miracoli del monologo.
L'ultima
produzione di Teatro Immediato stimola ad una riflessione su
condizioni e possibilità dello spettacolo al giorno d'oggi.
Diciamola
tutta. Quella del monologo è divenuta negli anni una scelta
drammaturgica e scenica fortemente orientata da fattori esterni
rispetto agli ambiti specifici della creazione artistica, su tutti la
penuria di risorse economiche che porta ad evitare i lavori corali,
che coinvolgano un numero elevato di artisti e maestranze (con una
relativa coralità di onorari da comprendere nelle spese di
produzione dello spettacolo). Il discorso vale soprattutto per i
piccoli centri e gruppi teatrali, costretti a fare maggiormente i
conti con il pallottoliere e ad interpretare
le voci di costo delle proprie produzioni come spietato criterio per
la circuitazione futura delle stesse.
Ciò
ha determinato il crearsi di una forbice piuttosto netta all'interno
della proposta teatrale, tra l'impiantarsi rapido (forzato dalla
potenza economica e mediatica) di forme del tutto aliene alla nostra
tradizione (ad esempio, il musical) ed una tendenza simmetrica verso
una idea minimale di spettacolo, più simile al racconto, spesso
elaborato sulle corde di una intimità anche fisico-spaziale con il
pubblico (si pensi al teatro di narrazione ed al sistema di affluenti
e torrenti sgorgati ai margini della sua corrente). Da una parte la
visività e la sonorità spettacolare che promana dalla scena alla
platea, dall'altra l'immaginazione protagonistica del pubblico,
sollecitata dalla voce di un interprete spesso unico, solitario,
quasi malinconico.
Certo,
non va sottovalutata una tendenza tutta drammaturgica alla
confessione, ispirata di sovente da un concetto di afasia tutto
interno alla comunicazione contemporanea, tale da determinare una
identificazione reale e profonda tra il nostro tempo e la forma
monologante. In ogni caso questa condizione, ha fatto sì che il
monologo si dequalificasse nel mentre della sua più vasta e
sistematica diffusione, secondo una fenomenologia fin troppo
comprensibile di entropia ed inflazione. Spesso presentato con
arrogante spirito di falsificazione quale forma intenzionale di
“teatro povero”, si traduce il più delle volte in uno spettacolo
che mostra principalmente una povertà qualitativa, sottratto al
maniacale lavorio attorico e registico che rappresentano la quiddità
del teatro, quel tratto che garantisce la sua unicità ed
irreplicabilità attraverso tutte le ere del progresso tecnologico.
Talvolta viene usato come piedistallo per una prova mattatoriale,
talaltra viene salvato dalla pochezza autorale grazie
all'interpretazione, oppure è la qualità del solo testo a fungere
da pretesto per perdonare la resa pressoché amatoriale che ne viene
perpetrata in scena.
In
ogni caso, ci si confronta quasi sempre con un lavoro monco, che
simula la sua definizione e dissimula la sua incompletezza, o -perché
no?- la sua incompetenza, poiché abitua pericolosamente pubblico e
attori ad un cliché tutto giocato al ribasso. Il fatto è che
nell'arte la sottrazione diventa valore solo quando va ad intaccare
la quantità di mezzi strumentali e non la qualità del lavoro, al
lordo dello sforzo, dell'impegno, della fatica profusa nel lungo
percorso non solo temporale che in teatro precede il momento effimero
dell'andata in scena.
Per
via della sua semplicità strutturale -ma solo apparente da
governare- il monologo permette salti mortali ed approssimazioni
altrettanto esiziali, concedendo improbabili debutti drammaturgici
agli amatori quanto agli autori avvezzi a ben altre forme di
scrittura o di linguaggio (romanzieri, giornalisti, psicologi,
politici, mezzi busti, anchor men e soubrettes
televisive in attesa di riscatto artistico …).
Orbene,
un lavoro come “Caprò” di Vincenzo Mambella, per la regia e
l'interpretazione di Edoardo Oliva, sovverte uno per uno tutti i
punti di criticità osservati con sintetica pedanteria fin qui. Il
testo riversa nella forma del monologo tutta una polifonia di voci e
stimoli che non corrispondono tanto ai personaggi che pur popolano
l'orizzonte della vicenda, quanto alla polisemia medesima del teatro,
quella sua specifica tensione che richiede alla parola una sfida
fisica, tale da reggere la presenza dell'attore e l'assenza di ogni
altro ente. “Caprò” è tecnicamente un monologo, ma rifugge ogni
secondo dalla semplificazione, dalla piattezza, dalla sensazione
straniante (eppure così frequente) di una narrativa meramente
traslata sulla scena. “Caprò” è vera drammaturgia e per suo
tramite restituisce immediatamente la categoria del monologo ai
crismi della composizione teatrale. “Caprò” è teatro,
dimensione sociale oltre che artistica in cui anche una storia non si
racconta, non si narra ma si evoca per scatti convulsi e salti,
passando attraverso buchi oculatamente previsti, mimetizzati ad arte,
lasciati come scarto da colmare al momento ad attore e spettatore,
contrastando ad ogni virgola la linearità dettata dalla parola
scritta. D'altronde, l'inchiostro del drammaturgo ha una consistenza
diversa da quello di ogni altro tipo di scrittore. Aspira alla
volubilità dell'aria più che alla tracciabilità della carta,
compete con la parola
sonora e viva, qualunque sia lo stile del testo (realistico o
d'avanguardia, di tradizione o di ricerca). Perché ancor più
veracemente compete con la
vita, in un impasto fatto di atti e persone quanto di
personificazioni e proiezioni
fantasmatiche, che la rappresentazione rende con precisione
ben maggiore rispetto alla realtà condivisa, condivisibile o
certificabile, in virtù di una fede -laica quanto integrale- nella
condizione umana.
La
lingua di “Caprò” mastica con ardore tutta la sapidità e tutta
la tortuosità imposta dal sermo quotidiano di un Abruzzo contadino,
immortalato in evo pre-industriale sul tramonto dell'Ottocento. In
questo scenario, è particolarmente apprezzabile l'uso virtuoso che
vien fatto del dialetto, trattenuto dalla facile spettacolarizzazione
o dalla ridicolizzazione alimentata pervicacemente da una pratica
vernacolare che nel nostro territorio supera difficilmente il livello
filo-drammatico. Vincenzo Mambella calibra un idioma che ricorre con
equilibrio sensibile al dialetto puro, come strumento di connotazione
teatrale mai fine a se stesso. Ne viene fuori una lingua dura,
tutt'altro che incline al compiacimento letterario, che al contrario
confligge con i suoi limiti forgiando il significato da una
incandescenza rubata al magma tragico della vicenda. Ad onta di ciò,
non mancano i momenti di comicità e lo spettacolo contiene una
traccia di ilarità pressoché costante che va oltre il comico ed
oltre l'apicalità delle battute; queste rivelano senso della scena e
dei tempi, ma non esauriscono la vivacità di un testo che si
mantiene godibile ed aperto al riso tramite i paradossi della logica
ed i conflitti creati dal confronto tra le diverse visioni di mondo,
le diverse culture antropiche, le diverse estrazioni sociali.
Su
questo terreno giunge puntuale la prova d'attore di Edoardo Oliva,
chiamato innanzi tutto a dare corpo e credibilità ad una formula
come quella del monologo che -anche quando scritto con perizia ed
ispirazione- dichiara allo spettatore tutta la convenzionalità della
situazione teatrale: con chi è che parla un attore solo in scena e
perché? Tecnicamente la risposta è semplice, nel senso che nel
primo quadro l'interlocutore invisibile è rappresentato dalla madre
del protagonista e nel secondo dalla figura per nulla oleografica di
San Rocco, mentre è tutt'altro che semplice quello che l'attore
compie in scena. Oliva in “Caprò” non si limita ad assecondare
la ricca tavolozza di colorazioni e sfumature predisposte da un testo
assolutamente intenso; riesce a riempire senza cali né scarti una
partitura fatta di singhiozzi e respiri oltre che di pieghe e
strepiti della carne. E questi non vengono estratti come numeri di
bravura dal repertorio attorico, ma appartengono titolarmente ad un
personaggio che sulla scena vive e che l'attore ha costruito e
nutrito con lavoro metodico, indefesso, intransigente. Mentre ti
inchioda al qui ed ora, la performance di Oliva dissemina la
traccia delle ore compatte e dei giorni lunghi di prova, spesi a
limare il senso ed i sensi, ad estrarre l'espressione dalle sue zone
più profonde, dove il corpo si fonde con la sostanza di una verità
che si fa comune solo mentre diviene comunicabile.
Ecco
che si riscopre limpido il linguaggio precipuo dell'arte teatrale ed
il suo ruolo specifico, tanto unico e vicino alla condizione umana
quanto mutuabile, equivocabile, facile oggetto di adulterazioni
inconsapevoli. Proprio come la verità.
Ed
ecco che il processo attorico si lega a doppio filo con l'azione del
personaggio, con la fatica sanguigna che esplode dalle braccia di
Caprò, che doma il metallo a colpi energici di martello, ma non
vince il peso della disperazione, della colpa, del passato sulla
fragilità dell'oggi.
E
fragile è anche la pretesa di raccontare, di spiegare l'intrico di
motivazioni che si nasconde dietro i freddi fatti, quasi piccoli e
banali rispetto alla voragine dell'anima, anche quando tragici. Così,
per quanto si aspiri alla comprensione degli uomini, alla ricerca di
riscatto, alle vette del vero, si resta legati alla polvere
della terra per atto di zavorre inesauribili assimilate alla pelle.
Di qui, ogni altrove non può che essere miraggio. O naufragio.
Per
tutto questo insieme di ragioni, chi necessiti della rassicurazione
delle categorie, potrà ben comprendere come “Caprò” non sia
definibile o esauribile quale spettacolo di narrazione, ma unicamente
come teatro tout court. Allo stesso modo si potrebbe
erroneamente dedurre da questa descrizione l'idea di un “teatro
d'attore”, del tutto limitante rispetto ad un lavoro in cui è ben
ravvisabile il disegno compiuto di una regia, che permette tra
l'altro l'intermittenza di momenti tratteggiati, caratterizzati da
una cifra poetica di assoluto effetto.
Paolo
Verlengia
CAPRO'
(Teatro Immediato)
di
Vincenzo Mambella, con Edoardo Oliva
Regia
Edoardo Oliva – Aiuto regia Valeria Ferri
Scenografia
Francesco Vitelli – Effetti Sonori Globster
25-28
Febbraio 2016 SPAZIO MATTA - Pescara
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