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OLTRE LE REGOLE: DOVE NON POSSONO LE PAROLE TUTTE
La compagnia AttoDue torna in scena con uno storico spettacolo tratto dall'opera di Lagarce

Da dove cominciare? E' questa la difficoltà reale che si incontra nel commentare uno spettacolo come Le Regole del Saper Vivere nella Società Moderna di Jean-Luc Lagarce, riportato sulle scene dalla compagnia Atto Due. Difficile infatti essere lucidi ed ordinati nell'espressione quando si è in preda ad una smania da innamoramento fulminante.
Ma tentiamo ugualmente ad onta di tutto e diciamo subito -con ritrovata obiettività- che chi lo avesse perso è quanto meno un soggetto consumato da una forma di masochismo latente, con ogni evidenza. A chi invece si è finalmente risolto d'andarlo a vedere, possiamo solo suggerire di guadagnare per tempo il proprio posto in sala e di mettersi comodo. Oppure no, si accomodi pure come capita, persino sciattamente, perché uno spettacolo così non chiede attenzione né profondità allo spettatore: gliela svela, gliela detta e gliela estrae direttamente dal costato.
Insomma, è praticamente impossibile essere prodighi di regole utili di fronte alle Regole di Lagarce. La compagnia toscana AttoDue vanta il merito iniziatico di aver fatto conoscere il geniale drammaturgo francese in Italia nel lontano 1998, per altro portando in scena proprio Le Regole. Questo è dunque avvenuto molto prima che Ronconi si cimentasse anche lui con l'autore transalpino e che lo stesso venisse tradotto e pubblicato in Italia, per altro in maniera non ancora sistematica e completa. Lagarce, benché prematuramente scomparso nel '95 a soli 38 anni, ha infatti trovato il tempo di lasciare un corpus di quasi trenta pièce, impreziosito da fugaci sortite nelle zone del racconto, del diario e della saggistica. Lui, con ogni probabilità, viveva al ritmo accelerato dei predestinati, dividendosi tra attività editoriali e teatrali, ma il destino degli eletti -come si sa- è spesso beffardo, oltre che crudele: pur producendosi in mille progetti ed altrettante azioni spettacolari, non è mai riuscito a mettere in scena un solo testo di suo pugno, né a vederlo inscenato da altri, mentre oggi è uno dei tre autori più rappresentati in Francia (in compagnia di due signori tendenzialmente abituati al primato dittatoriale e poco inclini alle spartizioni, come Molière e Shakespeare).
Qui da noi, come detto, la compagnia AttoDue rappresenta oggi una piccola istituzione lagarciana, dato che dopo de Le Regole è stata la volta di due nuove produzioni tratte dalla drammaturgia di Jean-Luc Lagarce (Giusto la fine del mondo e La Stanza in alto). Ma non meno interessante è questo ritorno del primissimo spettacolo, a diciassette anni dal debutto (quando la compagnia si presentava ancora sotto la denominazione storica di Laboratorio Nove). In scena c'è sempre Simona Arrighi, oggi come allora, ad interpretare l'autoritaria dama cesellata da Lagarce, solida immarciscibile consigliera di tutte noi personcine perbene. Diversa la firma della regia, oggi intitolata a Sandra Garuglieri ove ieri ha governato con indimenticato carisma Barbara Nativi.
Ma veniamo alla cronaca di palcoscenico. Già dall'ingresso in sala, si perepisce la linea di una tensione, di un'energia carica benchè trattenuta. Lo spettacolo non è ancora formalmente iniziato, ma lo è virtualmente. In scena -quasi in proscenio, in verità- lo spettatore viene intercettato dalla presenza ineffabile di una Mascia Tofanelli da pelle d'oca, che sussume in questo primissimo quadro (di pose più che di mimica) il segno compiuto che il suo geniale personaggio dipanerà nel corso dell'intero spettacolo. Se non fosse l'antefatto scenico di uno spettacolo completo, si tratterebbe di una installazione formidabile o di una performance seducente. L'attrice è avvolta in un tubino nero più castigato che non smaccatamente sensuale ed all'idea partecipano la linea esile della sua figura, i capelli raccolti, l'essenzialità complessiva di un'eleganza pudica e non ostentata, forse inconsapevole. Lo sguardo è mobile ma indecifrabile, mutevole tra le diverse gradazioni emotive della sorpresa, emanando scosse intermittenti di autocontrollo e potenza, negazione di sé e moti di affermazione.
L'allestimento riempie questo affresco iniziale, tratteggiato con la mano di uno Hopper smaliziato: la scena sa di buono, come si addice ad una casa per bene, ma senza il calore semplice dei centrini e dei vimini. Qui governa la solida geometria disegnata da un tavolo stretto e lungo che taglia l'asse centrale del palco, rimarcata dalle linee oblique di due serie simmetriche di sette piantine in vaso, venendo così idealmente a comporre una sorta di freccia che punta diretta e severa verso il pubblico (culminando nel “puntale” ribelle di un ultima pianta, identica alle altre ma “fuggita” al centro del proscenio). In questo sistema di codici, i fiori non segnalano la presenza della natura spontanea quanto quella dell'etichetta, di una legge superiore, che incasella, corregge e guida verso il miglior esito persino la natura stessa.
Lo spettacolo inizia anche formalmente quando fa il suo solenne ingresso una magnifica Simona Arrighi, nei panni di una dama aristocratica sontuosa ma autorevole, clinica conoscitrice del vero e del falso, nonché della necessaria convivenza di entrambi, almeno su questo pianeta. L'opulenza della sua figura si incastra constrastivamente -ma in soluzione perfetta- con quella della sua governante, laddove appaia troppo grossier per le regole usare la parola “serva”. Eppure il segno servile c'è tutto nella formidabile danza di bipolarismi e reciproca dipendenza che le due verranno a comporre nel corso di un inesorabile ed irresistibile accumulo di minuzie, fatto di segnali micromimici, sospiri, pause, strepiti isterici, gag post-cabarettistiche e gesti plateali. E parole, naturalmente, le tantissime rutilanti parole di un testo liquido come quello composto da Lagarce, dove le possibilità verbali fanno mostra di sé come le gocce di una fontana, capaci di salti, rintocchi e luccichii, senza mai fermarsi però a rimirare in un manierismo auto-compiaciuto. Ne Le Regole non c'è solo estro né solo una satira amara della società contemporanea, ma anche capacità di gioco e conoscenza dei meccanismi di scena.
Va tuttavia sottolineato come sul palco le due attrici sovrappongano al testo di Lagarce un tessuto spettacolare a dir poco prezioso, capace di esaltare i molteplici piani semantici del primo ma anche di contribuire in maniera inedita sul piano dell'idea, superando i limiti della struttura monologante di partenza. Perfezione e defaillance si abbracciano in scena disegnando soluzioni di bellezza commovente, rendendo -come solo l'arte, se tale, sa fare- consapevolezza alla vita stessa.
Tra le diverse notazioni necessarie in sede di commento, quasi si dimentica di sottolineare che lo spettacolo è estremamente godibile anche in termini di schietto divertimento, benché non ridanciano. Si ride, anche molto, nonché spesso, ma la quasi dimenticanza deriva dal semplice fatto che ogni emozione è qui ambivalente, non è mai isolata. Ed anche le parole, le tante sentenziose parole, dimostrano infine d'essere fatte per venir vinte dal silenzio.
Per chi dunque non lo avesse visto, per chi cerchi informazioni sullo spettacolo, un'ultima parola soltanto: “consigliatissimo”. Riconcilia con il teatro, e non solo. Sipario!
Paolo Verlengia

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