STEFANO
BAFFETTI E LA RESISTENZA DEL NARRATORE
Con
“L'Isola degli Uomini” un contributo interessante alla categoria
del teatro civico e di memoria
Sono
virtualmente innumerevoli le storie di eroismo privato che vanno a
comporre il mosaico della resistenza italiana durante la seconda
guerra mondiale. In questo ambito il teatro rivela le sue prerogative
come catalizzatore, nonché vetrina ideale per la riscoperta di un
patrimonio sociale, ancor prima che culturale e civile, attorno al
quale si origina la nostra identità nazionale nella sua valenza
migliore, scevra da nazionalismi o dalle approssimazioni della
retorica.
“L'Isola
degli Uomini” di Stefano Baffetti rappresenta soltanto l'ultima
occasione (in senso cronologico) di questa new wave ormai
classica del teatro nostrano, ispirata al valore della memoria ed al
meccanismo (o rito) del
racconto, inteso come storia di vita vera e spesso vissuta, in cui
l'atto medesimo dell'esposizione collettiva scolpisce ed elabora,
sottrae ed aggiunge, manipola la realtà nell'atto di porgerla. Ma
l'azione manipolatoria caratterizza anche il normale funzionamento
dell'umana memoria, ed allora val la pena di sacrificare
all'artifizio l'ideale utopico della realisticità pura, intatta
all'usura del tempo come e meglio di una fotografia.
Su
questa linea, la tematica storica ha rapidamente visto proliferare
una vera e propria tendenza, che come tale contiene limiti e rischi
strutturali, ma è proprio su questo punto che lo spettacolo di
Stefano Baffetti mostra il suo peso specifico. La tentazione fisiologica del
teatro di narrazione è quella dell'affabulazione, oltre
all'assunzione di un ruolo morale da parte del narratore, difensore
-a volte dichiarato, a volte dissimulato- di un confine netto tra
bene e male, buoni e cattivi, giusti ed ingiusti. Ne “L'isola degli
Uomini” troviamo tutti crismi dell'arte “epica”, mediati però
da una contemporanea resistenza rispetto ai suoi cliché.
Baffetti
regge la scena grazie ad una presenza energica, carica di
espressività sia vocale che corporea, modulando con sapienza
registri e stili verbali lungo un racconto che passa agilmente dalla
comicità alla tensione, intervallando con studiata efficacia il
ricorso alle sonorità dialettali (una koiné umbra
assolutamente inusitata per la ribalta artistica), ma ancor più
mirabilmente ricuce la fattualità degli eventi con la sospensione
letteraria che si fa largo all'interno di limitate “isole”
deputate ad riflessione più complessa. Si nota in scena la fusione
d'intenti tra autoralità ed attoralità (Baffetti è anche ideatore
ed autore del testo, dalle ricerche storiche alla sua resa narrativa
e scenica) nel veicolare con sapidità le prove di ordinario eroismo
di Don Ottavio Posta e degli umili pescatori del Lago Trasimeno, ma il
valore aggiunto dello spettacolo è dato dalla capacità di rifuggire
da formule rassicuranti o slogan eufonici. Baffetti lascia che la
narrazione fluidifichi fino ad un punto di apparente non ritorno, per
poi rincardinarlo sul leitmotif effettivo: la piena umanità
del male, contro la retorica della sua disumanità.
Paolo
Verlengia
(Bottegart),
“L'Isola degli Uomini”, di e con Stefano Baffetti
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