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AUTODIFFAMAZIONE”: SENZA VELI, SE NON DI PAROLE
Lea Barletti e Werner Waas portano in scena uno dei primi testi di Peter Handke

Che fine ha fatto Peter Handke, il mitico collaboratore di Wim Wenders ai tempi de Il Cielo sopra Berlino, lo spirito polemico che snobbava gli inviti del glorioso Gruppo '47, lo scrittore che preferiva la solitudine di una elitaria torre d'avorio all'immagine dell'intellettuale impegnato nella società? Gli ultimi avvistamenti ufficiali vogliono Handke attualmente accasato in Francia, ma non è questo il punto: il rumore delle sue provocazioni negli anni '60 contrasta con l'eremitico silenzio che circonda ormai da decenni il nome dell'autore austriaco. Silenzio rotto per lo più dalle polemiche innescate dalle sue discutibili posizioni filo-serbe nella guerra dell'ex Jugoslavia, che non dalla notizia degli importanti riconoscimenti ottenuti più recentemente (Premio Kafka nel 2008 e Premio Ibsen nel 2014), a conferma di una vena creativa che non conosce flessioni.
Non è dunque affatto peregrina la proposta di Lea Barletti e Werner Waas, ospitata in coda alla stagione 2015 di Florian Metateatro, che riporta in scena Autodiffamazione, uno dei primi testi teatrali di Peter Handke. Invero, uno dei primi testi in assoluto dell'eclettico autore austriaco, per il quale le distinzioni di genere contano in maniera apparentemente relativa. Eppure al teatro demandava un compito peculiare, visto che la produzione di soggetti drammaturgici negli anni e nelle decadi è stata da parte sua centellinata ma costante. Anche per un campione della provocazione e della destrutturazione come Handke, lo spettacolo teatrale doveva e deve rappresentare l'occasione di massima esposizione per la propria azione di disarticolazione e riflessione sui meccanismi sociali, in virtù dell'evento aggregante che millenariamente si crea attorno ad una proposta lanciata da un palco o una pedana da istrioni, imbonitori, giocolieri, predicatori...
Autodiffamazione esce nel 1966, annata memorabile in cui Handke si afferma prepotentemente sul panorama internazionale, grazie ai suoi romanzi innovativi e spiazzanti (I Calabroni, L'Ambulante) e grazie ad un evento epocale incastonato sull'orizzonte del novecento teatrale, rappresentato da Insulti al Pubblico, il suo testo più celebre. Ma se quest'ultimo smontava -in perfetto stile Handke- lo specifico linguaggio e rituale del teatro, Autodiffamazione conserva intatta quella medesima tensione e quel medesimo (anti)stile per applicarli alla riflessione su temi universali, come l'identità, la responsabilità individuale e la consapevolezza delle proprie azioni. Barletti e Waas hanno scelto questo particolare testo proprio in virtù della sua universalità e completezza, facendo corrispondere la radicalità di questa scelta con un momento cruciale della loro vita artistica: ormai assieme nella vita e nell'arte da più di dieci anni, dopo aver esaurito pagine importanti del proprio percorso nell'avanguardia romana e nell'interessantissimo progetto delle Manifatture Knos a Lecce, i due artisti erano alla ricerca di un'idea forte per tornare in scena ed aprire ad una fase completamente nuova, nella vita e nell'arte. Sì perchè con Autodiffamazione è venuta anche la scelta di trasferirsi a Berlino, il che almeno per Lea Barletti ha significato la rinuncia alla propria madrelingua, compensata dall'emersione energica di una vena scrittoria limpida e mai come ora necessaria, secondo quei meccanismi imprevedibili che Handke da sempre insegna a non sottovalutare. Autodiffamazione inquadra in pieno la fase in cui Handke focalizza lo sguardo sulla questione del linguaggio, studiato come strumento condizionante e dunque anche di potere. Nella messinscena di Barletti-Waas questa centralità della parola viene formalizzata innanzi tutto tramite la scelta del bilinguismo: Lea pronuncia le sue battute in italiano mentre su di uno schermo di fondale ne viene proiettata la traduzione in tedesco, ovvero la versione originale, laddove Werner parla in tedesco, con il pubblico che può seguire sul medesimo schermo la traduzione in italiano di quello che dice. Ma non si tratta di battute vere e proprie, di botta e risposta tra due personaggi. Il testo di Handke non ne prevede, predisponendosi per la mera declamazione da parte di una presenza maschile ed una femminile genericamente indicate da una didascalia, né sono previste le porzioni di testo assegnate all'una ed all'altra voce. In questa anarchia pressoché totale in termini scenici, la scelta del biliguismo non è un vezzo né una disperata àncora per la gestazione dell'idea; al contrario, assume una funzione attiva sulla coscienza degli spettatori come un surrogato dello straniamento brechtiano, venendo a mostrare e sottolineare continuamente la parola come accessorio esterno, applicato sulla natura primigenia dei parlanti. Qui viene ad incastrarsi l'altra caratteristica forte dello spettacolo, in termini immediati: se la parola non è che abitudine o abito che viene a coprire e condizionare la natura umana, la presa di coscienza di questa condizione viene massimamente rappresentata dalla liberazione da parte degli attori di ogni condizionamento. Barletti e Waas entrano in scena con i loro nudi corpi, benchè si tratti di una nudità imperfetta (Lea mantiene ai piedi un paio di vistose sneakers mentre Werner ha il capo coperto da un pretenzioso borsalino), che mantiene tracce di uno status precedente, a rendere la nudità attuale non una condizione astratta ma un atto di volontà ed il risultato di una espoliazione ancora in fieri. Non si tratta ovvero di una nudità adamitica, originaria, bensì posteriore, recuperata all'indomani della civilizzazione e dunque più pura perchè non data, imposta a se stessi prima che agli altri tramite il rifiuto di armature e filtri, maschere e paludamenti. Si tratta dunque di un nudo affatto differente rispetto a quello libertario e comportamentale di fine anni '60 (cui il testo pur risale); i due attori dedicano i primi lunghissimi minuti dello spettacolo alla trasmissione senza parole proprio di questo atto e del suo significato: non c'è una ostentazione del proprio corpo, non un pugno nello stomaco ai benpensanti, ma una esposizione di sé che mantiene tutto l'imbarazzo di compierla, attraversato appena dal senso di una leggerezza che si guadagna unicamente tramite un atto di verità intima. I rimandi alla sfera metateatrale, oltre sociologica, linguistica e psicologica sono pertinenti, ma il dato da sottolineare su tutti gli altri è il riferimento specifico di questa scelta estetica dello spettacolo rispetto alle caratteristiche del testo che viene messo in scena. Non si tratta dunque di una scelta vistosa per mirare all'attenzione e persino alla memoria di pubblico ed operatori andando ad agire sui loro tessuti più crassi ed istintuali; la questione è al contrario eminentemente tecnica, e concerne la resa in termini diretti e sensoriali delle caratteristiche di un testo volutamente “nudo” oltre che spigoloso in termini scenici.
La parola di Handke viene così accolta in un alveo di confessione e sottratta al cliché della provocazione. Il testo si compone di una serie doviziosa di frasi più o meno lunghe in cui il parlante ammette di aver compiuto gesti non corretti sul piano etico o sociologico, dimostrando in realtà l'impossibilità linguistica e concettuale di un parametro e finache di un limite all'autoflagellazione. In questo modo, i due rappresentanti dell'umanità si trovano a mescolare nel calderone della confessione azioni neutrali o puramente dinamiche con altre discutibili, imbarazzanti e umanamente delittuose, producendo momenti di ilarità che la recitazione tende erroneamente a caricare con scenette ed ammiccamenti piuttosto triti, nonché pleonastici.
Di fronte ad un testo più leggibile che rappresentabile, lo spettacolo inserisce le sue modulazioni e variazioni di ritmo: gli attori si ricompongono, si vestono, divenendo ora eleganti e quasi impeccabili, ma restano umani concedondosi una pausa per rifocillarsi, bere dell'acqua o fumare una sigaretta, con le frasi di auto-accusa che continuano imperterrite a cadere sul pubblico tramite le tracce registrate e gli effetti sonori curati da Harald Wissler, presenza esterna assai importante nel gioco degli straniamenti, ben visibile nella sua console ubicata subito oltre la linea di proscenio.
Ed allora, che cosa resta dopo le tante parole, rese più numerose e massive dalla mancanza di azione e di narrazione? Da dove nasce questo senso di colpa collettivo incolmabile? E cosa produce la nostra ambizione ad essere in armonia, pur essendo come siamo? L'effetto finale non è dato da una risposta, ma proprio dall'eco di questi interrogativi che continuano ad aleggiare nel silenzio improvviso, quasi denso nel suo vuoto dopo tanto pieno. E quasi fisico, quasi complice, come un altra identità a cui non chiedere oltre e non chiedere altro. Soltanto accettazione e soltanto abbraccio.
Paolo Verlengia
Autodiffamazione” con L.Barletti e W. Waas, 15 maggio 2015, Florian Espace - Pescara

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