LA RICETTA DELL'UTOPIA
TARGATA “NUOVE OFFICINE”
Tra ricordo e
speranza, il nuovo progetto della compagnia romana
Il tratto distintivo di
uno spettacolo come Cara Utopia è rappresentato dalla
centralità di due elementi: la storia ed il personaggio. Rovesciando
l'apparente assertività politica del titolo, l'azione si muove in
realtà sulle note della semplicità più verace, oscillante tra
momenti di comico, tragico e lirico calibrati con precisione finanche
geometrica attorno ai ricordi della protagonista, una umile cuoca di
origini pugliesi, sbarcata forzatamente a Roma ingenua ventenne ed
oggi attempata testimone di una stagione di sogni ingenui, eppur
tenaci. Claudia Crisafio regge da sola una scena resa più ampia da
una scenografia volutamente sottodimensionata, con una performance di
grande dispendio fisico ed energetico, che lascia presagire la mano
di una regia forte realizzata da Marianna Di Mauro.
Ecco allora che inizia ad
affiorare l'aspetto più interessante della proposta di Nuove
Officine, compagnia nata a Roma nel 2005 e fortemente caratterizzata
dall'incontro tra competenze diverse. Si va dal profilo poliedrico
della fondatrice e regista Marianna Di Mauro, che giunge al teatro da
una solida e mai discontinua ricerca operata nel campo della danza, a
Claudia Crisafio protagonista delle ultime produzioni di Nuove
Officine (Vale Due e, appunto, Cara Utopia) dopo una
trafila alacre che l'ha vista lavorare -tra gli altri- con Ronconi,
Manfredini, Lavia, cullando e curando una parallela dimensione di
autrice con all'attivo la scrittura di una sceneggiatura
cinematografica (il cortometraggio Io sono qui) e la creazione
a quattro mani di un dramma sulla resistenza delle donne romane
durante la seconda guerra mondiale (Il Cestino delle Mele)
basato su ricerche storiche ed interviste sul campo.
Nel caso di Cara
Utopia, la drammaturgia è firmata da Maria Teresa Berardelli,
portatrice anche lei di un percorso poliedrico: dopo un iniziale
accostamento al teatro in qualità di attrice fra 2003 e 2005, decide
di dedicarsi alla sola scrittura per il palcoscenico, iniziando dal
2009 una intensissima produzione cadenzata da riconoscimenti
immediati (Premio Riccione-Tondelli 2009, Premi Fersen e Citta di
Chieri 2010). Con Cara Utopia, la giovane drammaturga romana
realizza una base testuale in lingua standard per la successiva
traduzione in dialetto pugliese operata da Marianna Di Mauro in virtù
delle origini tarantine di quest'ultima. Il personaggio di Pasqualina
è dunque il risultato di un procedimento metodico che contiene il
passaggio stratificato -tutto femminile- di drammaturga, regista e
attrice, in una formula cooperativa per la quale ciascuno dei
contributi si rende decisivo, imprescindibile, insostituibile.
La scenografia proposta
nell'ultimo allestimento partecipa a questo tipo di processo, ponendo
in risalto la presenza della protagonista per via di un apparato
scenico estremamente ridotto nelle proporzioni, che in questo modo
funge da icona per le memorie condensate che la protagonista recupera
progressivamente nel suo racconto. Efficace, oltre che elegante, in
questo senso la scelta di sospendere a mezz'aria la casupola
trasparente carica di piante e ricordi, dove presenzia in primo piano
il modellino di una cucina per bambole, che perde immediatamente ogni
rimando alla simulazione o al gioco infantile.
In questa cornice,
Claudia Crisafio è abile e generosa soprattutto sul piano del lavoro
corporeo, sia nei passaggi in cui la parola si ferma, lasciando
spazio ad azioni quasi coreografiche, che più in generale
nell'amministrarsi senza sbavature in un abito recitativo decisamente
faticoso, che la costringe in posizione ripiegata per la quasi
integralità della performance. Marianna Di Mauro manovra con
decisione lo spettacolo lontano dalle sacche della narrazione
statica, attingendo in parte alla lezione del teatrodanza che l'ha
vista studiosa ed allieva di Pina Bausch.
La scrittura di Maria
Teresa Bernardelli tenta di rifuggire dal rischio del patetismo,
caricando il personaggio di Pasqualina di motivi volitivi e di
speranza, come risposta pervicace rispetto al suo destino picaresco:
è in questa resilienza della fiducia e del sogno tangibile che sta
l'utopia. La drammaturga ha buon gioco in questo schema inserendo i
motivi collaudati del cibo e della territorialità. Manca
all'impianto complessivo dello spettacolo la quiddità
dell'ispirazione, della sorpresa, del graffio e dell'originalità
piena, assestandosi sui valori di una sicura mediezza.
Paolo Verlengia
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