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"Scenari Europei"

DIARIO DEL FESTIVAL

Venerdì 18 settembre 2015.
Ore 21. Spazio Matta. La prima giornata propone due formazioni di diversa estrazione, avvicinate da una comune visione di fondo, in cui l'arte si fonde con l'impegno civile e politico. Aprono le danze i Muré Teatro, giovanissima formazione pescarese nata nel 2012, fresca reduce da una brillantissima partecipazione al Premio Scenario 2015, suggellata dal raggiungimento della finale di Santarcangelo. Si tratta di un risultato storico per la realtà teatrale abruzzese, che si conferma dopo l'exploit di Serena di Gregorio nella scorsa edizione (prima finalista abruzzese in assoluto nella storia di Scenario). I Muré propongono il loro Courage, termine francese per “coraggio” qui inteso ad un tempo come riferimento drammaturgico a Brecht e come oggetto etimologico, dove il concetto di base è una esortazione alla prova di “cuore” anzi che alla prova di forza, a nutrire un coinvolgimento pieno e sincero per l’esistenza, l’esistente e le vicende umane che l’abitano. Le vicende che invece abitano lo spettacolo sono tratte dall’attualità, ma vengono trattate con intelligenza scenica e metabolizzate sotto forma di immagini eminentemente teatrali. La scena presenta un fondale di fattura volutamente artigianale ove predominano le tinte azzurre, sorretto da una robusta armatura in ferro nero. Sul lato destro è presente una postazione per musica, con tastiera e sgabello posti perpendicolarmente alla linea di proscenio. Il progetto scenico rivela dunque sin dalle premesse esteriori un’idea ben precisa di spettacolo: la dimensione meta-teatrale, lo svelamento delle convezioni di scena come metodo organico per lo sviluppo dell’intera azione. Ma da Brecht viene carpito innanzi tutto l’uso della musica come elemento strutturale, che non si aggiunge allo spettacolo in funzione di accompagnamento o alleggerimento, bensì partecipa alla sua costruzione materiale sul piano drammaturgico, intrecciandosi in maniera indissolubile con le battute degli attori, incidendo sulla scelta delle parole e sulla loro ricezione da parte del pubblico, invaso quest’ultimo da una molteplicità di registri comunicativi (va rilevato l’intervento oculato anche dell’effettistica registrata, tra tracce musicali e pure sonorità ambientali, come il mugghiare degli elementi atmosferici). Alla spicciolata entrano i tre attori per comporre il quadro di una giovane compagnia dai tratti guitteschi (baffi posticci sbilenchi, memoria imprecisa, interruzioni interne ed esterne) impegnata tra mille dubbi (materiali prima che psicologici) nella pretenziosa messinscena di Madre Courage, un manifesto del teatro engagé, un terreno scivoloso dove “toppare” è vietato quanto facile. C’è persino il carro della celeberrima eroina brechtiana, dotato di ruote e realizzato con assi di legno mobili, capaci di farlo modulare in un gioco di aperture e trasformazioni vicine ad uno spettacolo d’illusionismo da circo popolare. Si aggiunge presto il quarto elemento della compagnia, il musicista, che prende posto nella sua postazione laterale, e l’attrice che si era brechtianamente prodotta in un breve prologo attraversato da interpolazioni dialettali si sdoppia nel ruolo ora di suggeritrice, ora di personaggio. La territorialità è un altro punto focale dello spettacolo, alimentato in forma sia linguistica che musicale: gli strumenti acustici proliferano progressivamente in scena, recuperando dalla tradizione locale, pur sperimentata entro ambientazioni esotiche, che trasferiscono l’azione verso latitudini lontane ed intermittenti, a fungere da didascalia senza testo. Qui si coglie il valore effettivo dello spettacolo, che non è un brillante esame di maturità sulla lezione della recitazione epica, ma un pezzo di teatro autonomo. La maturità dei Muré viene fuori limpida nel coraggio di superare Brecht e nei modi di far propri degli strumenti, non già dei modelli né dei dogmi. Il carro rubato a Brecht diventa ora nave, ora interno domestico, ma soprattutto palcoscenico nel palcoscenico, per un effetto di inquadratura dell’azione simile allo zoom cinematografico, benché il richiamo immediato sembrerebbe orientare verso un teatrino di marionette. Il pregio più autentico di Courage è proprio quello di mantenersi in equilibrio tra più cifre teatrali senza disperderne nessuna, né di appiattirsi monoliticamente su di una soltanto. La marca popolare dell’impianto convive con la ricercatezza formale e visiva raggiunta in alcuni passaggi, così come gli sketch istrionici da rivista lasciano spazio alle scene mute caricandole di potenza ieratica. Restano da registrare alcuni equilibri interni e da valorizzare a pieno tutti i moduli impiegati, ma l’auspicio più complessivo è che lo spettacolo –presentato per l’occasione in forma di studio di 20 minuti- mantenga la stessa impaginazione iperveloce anche nella sua forma compiuta, cedendo ogni tentazione di didascalismo a favore della cura sintattica dei meccanismi di cui lo spettacolo si compone. Muré Teatro è composto da Francesca Camilla D’Amico, Marcello Sacerdote, Martina Morgione, Sebastian Giovannucci. Ad Maiora!

Ore 22, Florian Espace. La seconda parte della prima serata vede protagonista Bluemotion, corposo collettivo romano che si divide tra interessanti progetti teatrali e musicali all’interno dello spazio occupato Angelo Mai. Per l’occasione la regista Giorgina Pi dirige un terzetto tutto femminile composto da Valentina Acca, Aglaia Mora e Laura Pizzirani. Il lavoro consiste in una raffinata mise en espace di Guance Rosse, testo della drammaturga francesce Sandrine Roche, classe 1970. Il titolo racchiude le coordinate principali del lavoro drammaturgico prodotto dall’autrice: una rivisitazione della fiaba per antonomasia, quella di "Cappuccetto Rosso", sottratta ad ogni finalità didattica o narrativa, come base inquieta della pura psiche dei personaggi che la abitano. In questo modo, scivolano via tutti i componenti fondamentali per la mera struttura del racconto, mentre guadagnano visibilità e superficie quelli che innervano la complessità dei rapporti umani. Prende così forma un trittico complesso di figure femminili attraversate da legami forti e contraddittori, eppure naturali come sono i legami di sangue. Il rosso naive del racconto da cuscino vira verso le tonalità umbratili di ciò che unisce e separa le tre età della donna, attraverso i monologhi -ora espliciti, ora interiori- di una figlia, una madre e una nonna.
La scena scarna è attraversata da una luce fioca, simile ad uno strato di nebbia, sufficiente a rivelare la presenza delle tre attrici immobili sullo sfondo. Al centro del palco si riconosce un piccolo tavolo; in proscenio, abbiamo una sedia sul lato sinistro ed un microfono ad asta su quello destro. Una base registrata diffonde un "effetto vento", a completare il quadro di una quiete fragile, soltanto apparente. Il tappeto sonoro –composizione originale dalla squadra Blumotion- si dipana in suoni sintetici aspri ed aritmici, accompagnando con perfetto dosaggio d’intensità l’intera lunghezza della recitazione. Questa si compone a sua volta di tre monologhi di quindici minuti circa, ognuno dedicato ad un singolo personaggio del trittico.
Le tre attici si distribuiscono sullo spazio scenico: una guadagna il microfono ad asta restando in piedi; le altre si siedono andando ad occupare una la sedia, l’altra la base del tavolo. Un fascio di luce inquadra Veronica Acca, mentre le altre due attrici rimangono immobili nelle loro postazioni nella semioscurità. Si attiva così il primo personaggio. Indossa una felpa rossa con cappuccio sopra di un disinvolto paio di blue jeans. E’ lei ciò che resta del personaggio originario di Cappuccetto Rosso, che in questo risveglio post-moderno veste i tratti della giovane donna, affacciata su di una vita autonoma ma ancora pesantemente ingabbiata nel ruolo di figlia. Le parole sono infatti rivolte alla madre, ma non si tratta di una lettera, né di un puro monologo. La qualità delle parole è nervosa e si addice ai modi del discorso diretto, al quale però è stato sottratto l’interlocutore, il secondo termine del dialogo. L’effetto che si crea è simile a quello di una telefonata di cui si può sentire solo la parte pronunciata da un solo capo del telefono. In questa partitura di mezze frasi, esitazioni, dilatazioni ed accelerazioni improvvise, Veronica Acca è abilissima, riuscendo a carpire e mantenere l’attenzione dello spettatore in una porzione iniziale di testo, in cui le regole del gioco sono ancora poco trasparenti.
Il cono di luce che ha ritagliato il rosso esplicito della figlia si spegne; la luce va ora a bagnare la seconda attrice, seduta in proscenio: perché si attivi anche il personaggio c’è bisogno di un codice scenico, come era la felpa rossa nel primo passaggio. Qui l’oggetto di transizione è una collana di perle, che Aglaia Mora lega rapidamente al collo accendendo di vitalità il personaggio della madre. Parola dopo parola, frase dopo frase, i brani del discorso disegnano una linea spezzata speculare al primo monologo, a cui si incastrano come i pezzi mancanti di un puzzle. Il dialogo che ora si ricompone chirurgicamente lascia però immutate le distanze, le inabilità formali di un amore pulsante, ma ancora incapace di articolarsi. Aglaia Mora è a dir poco spettacolare nell’innervare con talento ed esperienza ogni singola curvatura umorale della parte, fornendo una performance di assoluto dinamismo (mimico vocale) pur rimanendo nella gabbia posturale della sua sedia.
Il quadro si completa quando la luce viene ad isolare il terzo personaggio, la nonna. Qui l’oggetto di transizione è rappresentato da un paio di occhiali. Laura Pizzirani ha il merito di non aggiungere inutili connotazioni stereotipiche ad un personaggio lontano a lei per diverse decadi di età. La base registrata si interseca tra le battute dei tre assoli con voci fuori campo delle medesime attrici, a fungere da monologo interiore dove il personaggio esprime i suoi pensieri, le verità recondite spesso contraddette dalle parole condivise. Lavoro pregevole, per l’intelligenza della regia e la qualità delle attrici, tutte e tre attive sia in teatro che nel cinema. Dal punto di vista drammaturgico, convince soprattutto l’incastro dei primi due monologhi, mentre risulta rivedibile l’intero concetto del quadro finale.

Sabato 19 Settembre 2015
Ore 21. Spazio Matta. La seconda giornata si apre con Raices y Alas. De leyendas y otros viajes di Carmen Nubla, interprete spagnola da qualche anno di stanza in Italia. Il lavoro vede la regia di Giulia Basel all’interno del progetto “L’Europa è Qui” firmato dalla stessa per Florian Metateatro. Il progetto nasce dall’idea di produrre o valorizzare spettacoli in lingua originale relativamente alle principali culture europee ed in questo caso la musicalità nonché la vicinanza linguistica dello spagnolo si rivelano uno strumento aggregante per la partecipazione del pubblico.
Carmen Nubla intesse un racconto in cui l’autobiografia apre a digressioni e suggestioni ispirate alle tradizioni culturali di Spagna ed Italia, tracciando un itinerario di luoghi, leggende ed icone storiche caratterizzate da un legame forte tra i due paesi: l’imperatore Traiano, Seneca ed Ovidio, Cristoforo Colombo, Cervantes, Lorca. Parimenti si ripercorrono le tappe del percorso vissuto dall’artista nel perseguimento del sogno di recitare, dalla piccola Trujillo nella lontana Estremadura alla centralità della capitale Madrid, fino a Roma ed all’Abruzzo, venendo a chiudere non la linea di un allontanamento dalle radici, ma la circolarità di una ricerca esperienziale, dove i panorami dell’ultima tappa del viaggio richiamano in qualche tratto quelli del luogo di partenza e d’origine.
L’interprete accompagna l’eloquio con una gestica assai pulita nella forma e quasi pedagogica nei modi, per poi lasciare progressivamente spazio a momenti di maggior codificazione performativa.
Viene allora fuori tutto l’eclettismo di Carmen Nubla, formata alla recitazione stanislavskijana, ma anche cantautrice e pedagoga. Qui si divide tra momenti musicali di voce e chitarra e passaggi recitati con pathos, senza disdegnare qualche accenno di danza. Lo spettacolo (presentato in forma di studio di 25 minuti) sfiora talvolta gli stereotipi dell’ispanismo senza però mai cavalcarli realmente. Convincente la presenza scenica di Carmen Nubla specie nei passaggi performativi, che vengono porti con una delicatezza agli antipodi della mattatorialità. Proprio questa misura fine tra virtuosismo e candore si afferma come il linguaggio portante di uno spettacolo che vive fortemente delle vibrazioni della sua interprete.
Il lavoro mostra di incontrare l’apprezzamento del pubblico, per nulla distanziato dal filtro linguistico. Particolarmente graditi risultano i momenti canori, in cui la performer si offre in una gamma pregevole di registri vocali, alternando l’uso del microfono a quello della nuda voce.
La performance, in questa sua forma di primo studio, termina in un crescendo che lascia ben sperare per il prosieguo del lavoro. Il confronto con il pubblico, ampiamente rassicurante in fatto di ricezione degli snodi argomentativi, sembrerebbe incoraggiare verso l’impaginazione di momenti performativi, andando ad asciugare le parentesi didascaliche.

Ore 22. Florian Espace. La seconda giornata continua all’insegna dell’internazionalità. I Bluteatro propongono Io, se voglio fischiare, fischio della drammaturga rumena Andreaa Valean, particolarmente apprezzata per l’attenzione rivolta alle realtà sociali più nascoste. Da un adattamento della pièce è stata tratta l’omonima pellicola cinematografica premiata nel 2010 a Berlino con L’Orso d’Argento. Ed in effetti la prossimità con il linguaggio cinematografico si ritrova pienamente guardando alla messinscena proposta da Bluteatro. Loro sono una compagnia giovane ma già piuttosto esperta, formatasi da una classe di attori dell’Accademia Silvio D’Amico diplomati nel 2010. Si nota l’affiatamento di chi si conosce da tempo sul piano personale ed artistico, ma con maggiore probabilità l’amalgama proviene principalmente da una generosità attorica ancora immacolata, sospinta dal talento autentico. E’ un lavoro che sorprende innanzi tutto perché si basa su di una recitazione integralmente realistica, fatto a dir poco inusitato nel panorama contemporaneo. Sì perché non si parla del realismo convenzionale e di mestiere contro cui si continua a sbattere in tanto teatro di repertorio (dai cartelloni ufficiali alle filodrammatiche), ma di una immedesimazione attorica che sa quasi di Actor Studio (e di cinema, per l’appunto).
Non si spende la definizione di naturalismo soltanto per cautela etimologica, visto che le scodelle, i piatti ed i bicchieri che vengono utilizzati in scena non contengono materialmente cibo o bevande; stesso discorso vale per la scenografia fatta di un tavolo e sei sedie. Ma in termini di rapporto intimo tra interprete e personaggio, di scavo psicologico e di incarnazione, l’aggettivazione naturalistica ci starebbe tutta. Ed il banco di prova della vituperata verosimiglianza necessita di talento e qualità cristallina per non cadere nel mestiere o nello spontaneismo.
La cifra stilistica della messinscena segue senza dubbio la traccia dettata dal testo, che viene approcciato con mano lieve e senza un piano di regia più aggressivo o connotato; il lavoro rientra nel progetto Fabulamundi e la performance dei Bluteatro mira conseguentemente a porgere il testo nella forma più vicina alle caratteristiche dell’originale. Detto questo, gli interpreti si mettono a totale servizio del testo senza nulla perdere in luminosità individuale e corale, riuscendo a reggere senza la minima sbavatura la tensione dei loro personaggi lungo i tempi lunghi di uno spettacolo completo, articolato in cinque quadri intervallati da transizioni di buio. Vincenzo D’Amato e Alessandro Meringolo sono monumentali nel sostenere le due assi portanti (ed antitetiche) della drammaturgia messa a punto da Andreaa Valean, ma non sono da meno Massimo Odierna e Viviana Altieri nel riempire le polarità drammatiche più instabili, così come Davide Gagliardini completa l’affresco con ciò che resta del ruolo brillante in una trama dalle sfumature oscure. La vicenda è ambientata in un carcere minorile per soli maschi, un microcosmo dove vigono regole non scritte e gerarchie di anzianità tra detenuti. Rispetto a questa realtà, si dimostra utopistico lo slancio di una giovane ricercatrice convinta delle possibilità di recupero da parte dei detenuti attraverso l’ascolto, il dialogo e la partecipazione attiva. Al culmine della tensione, Andreaa Valean sorprende con un colpo di teatro ed una svolta farsesca, in cui si respira l’estro di una fantasia balcanica.

Domenica 20 Settembre 2015
Ore 21. Spazio Matta. Con la terza giornata scendono in campo i componenti della Generazione Scenario 2015 (ovvero l’insieme degli spettacoli vincitori dei 4 premi assegnati in ogni edizione: spettacolo vincitore "Premio Scenario"; spettacolo vincitore della "sezione Ustica" per il teatro di impegno civile; due segnalazioni speciali). La partenza è di quelle forti: subito in scena la vincitrice di Scenario 2015, Angela Demattè. Il titolo del lavoro, Spettacolo in Lingua Originale, gioca con gli strumenti raffinati della provocazione tautologica, anticipando la traccia di una cifra che verrà mantenuta nel corso dello spettacolo (anche questo, come i restanti lavori della Generazione Scenario 2015, viene presentato in forma di studio da 20 minuti). Angela Dematté giunge a questo prestigioso risultato nel pieno della sua maturità artistica e personale, dopo una variegata esperienza che l’ha fatta viaggiare dal musical alla tragedia greca, dai pupi del Maestro Cuticchio al cinema, fino ad affermarsi come autrice (Premio Riccione nel 2009 per un dramma sulle Brigate Rosse). La regia di questo lavoro è un’operazione collettiva ed il gruppo di lavoro –che annovera tra gli altri Roseanna Dematté, sorella gemella di Angela- si firma “Mad in Europe”, un evidente gioco di parole sulla base di un controverso sentimento di appartenenza all’onnicomprensiva madre Europa, forse “casa-madre”, forse marchio di fabbrica più che reale macro-nazione. Ma c’è anche la diretta allusione alla follia, alla perdita di controllo o alla crisi di identità raggiunta tramite una troppo rapida rimozione delle radici. La mad in Europe è anche il personaggio attorno al quale ruota lo spettacolo, figura di una donna impazzita che ha dimenticato la sua madrelingua, sostituendola con un pastiche pluri-idiomatico che mescola assieme sintagmi e lemmi rubati con disinvoltura da inglese, francese, tedesco e spagnolo, stando alle espressioni più facilmente riconoscibili. Ma che forma di nevrosi è quella che intacca la facoltà linguistica, e –andando al fondo del quesito- cosa rappresenta per la nostra identità individuale la lingua che parliamo? Il lavoro di Angela Dematté prende forma attorno a questi dubbi filosofici, linguistici, antropologici, proiettati sull’attualità come sul sempre. Tali premesse preparano ad un lavoro di assoluta originalità, dato che in genere le prove d’impegno e di ricerca si affidano per lo più alla coscienza civile o al materiale di cronaca, prendendo volentieri di petto la questione politica o la questione morale (ma sempre in un unico modo e con un unico esito). Eppure il teatro è spietato più di altri ambiti nel necessitare soluzioni materiali e sensoriali che transustanzino sullo spazio fisico della scena la pura idea, la pura profondità del significato, la pura essenza. E’ proprio qui che Angela Dematté vince la sfida, andando a plasmare una situazione scenica di non immediata ricezione nei suoi presupposti cerebrali tutti, ma continuamente gravida di sorprese per lo spettatore, pur giocando quasi sempre in sottrazione ed in decostruzione rispetto ad ogni illusione appena creata. L’azione inizia al buio, dal quale giunge il primo pastiche linguistico pronunciato in proscenio. Quando la luce irrora la scena, si nota una doppia fila di sedie di legno ed un pacco voluminoso avvolto in un imballaggio ordinario. La Dematté gioca con questa apparente ordinarietà, specie nella prima metà della performance; si rivolge direttamente al pubblico uscendo fuori dal personaggio ed introducendo alla vicenda come se fosse improvvisamente diventata un’informatrice tecnica a servizio dello spettatore. Ma questa escursione fuori dal personaggio (non certo innovativa in sé) non è una pausa dallo spettacolo, bensì l’altra faccia di uno “show” strutturalmente bifronte. La comunicazione di servizio si trasforma presto in un monologo grondante, dove ogni espressione è artatamente ricercata, come fosse davvero abbandonata alla nervosa improvvisazione del momento, eppure sempre tesa verso elucubrazioni colte. La situazione crea meccanismi comici spassosi, con il discorso che si impantana più volte nella doppia, tripla, quadrupla aggettivazione, nei modi di un redivivo teatro dell’assurdo sfrondato da inutili manierismi o narcisismi. Angela Demattè governa con maestria attorica la linea ambigua di uno spettacolo fintamente trasandato e fintamente buffo, dissimulando nell’atto stesso del suo farsi la propria maestria scenica e la profondità della sua creazione. Allo stesso modo, il ritorno al personaggio della donna impazzita, -la mad eponima, soccorsa artigianalmente nei locali poliglotti della Commissione Europea - fornisce motivi di divertimento gustoso proprio mentre si svela con procedimento iconico il concetto centrale del lavoro: la maternità, nella sua sostanza biologica e simbolica, estendendosi alla dimensione pristina dell’origine di ogni cosa, come la madrelingua, come una cultura che ci ingloba e ci priva di identità propria, fino al punto di non poter scegliere più individualmente, fino al punto di rinnegarla in un anelito di libertà, accettando di perdere memoria di noi stessi, di tutto quanto credevamo di essere, di possedere e di portare sottopelle.

Ore 22. Florian Espace. Completa la terza serata Homologia della Dispensa Barzotti, compagnia parmense di recente costituzione (2014). Al duo originario –formato dalla regista Alessandra Ventrella e dall’attore Rocco Manfredi– si unisce qui Riccardo Reina, anch’egli attore. Lo spettacolo, premiato con una segnalazione speciale al Premio Scenario 2015, fonda infatti su di un meticoloso lavoro a due che parte da una riflessione sul comportamento umano e sul concetto di omologazione. La scelta principale sul piano del metodo e del linguaggio sta nella rinuncia totale alla parola in scena, caricando ogni cura ed attenzione sullo sviluppo del linguaggio non verbale. Non si tratta di un esperimento assoluto per la Dispensa Barzotti, che nel primo anno di vita è stata protagonista di un progetto itinerante dal sapore antico, con la messa a punto di un teatrino ambulante per marionette lanciato lungo le strade e le piazze d’Italia. Ed in effetti si nota in Homologia lo studio analitico di una tecnica di figura che da tale protende sempre più verso i canoni del linguaggio teatrale completo. La scena si apre su di una poltrona girata spalle al pubblico, al quale viene posto subito il primo problema di illusione o di dubbio ottico: si intuisce una presenza seduta alla poltrona, per effetto delle ciocche di una parrucca bianca che sormontano la spalliera. L’immobilità criptica di questa immagine si rompe quando subentra il suono di una sveglia o un’altra soneria: la presenza ipotetica conferma allora la sua effettiva esistenza e consistenza umana (non si trattava di un fantoccio!), muovendosi convulsamente alla ricerca dell’impertinente sorgente sonora. Nel parapiglia una tazza cade fragorosamente a terra, ripristinando la quiete iniziale, con un uso dei tempi di scena e della tensione propri della drammaturgia tout court (viene in mente su tutti il primo Pinter). Nel prosieguo invece lo spettacolo sacrifica questa completezza alla ricerca della perfezione dell’effetto, raggiungendo risultati notevoli in termini di precisione. La comicità prende il posto della tensione drammatica, accompagnata dal vivo gradimento del pubblico, che risponde con una partecipazione da numero circense o in maniera simile a come avveniva in altri tempi per le comiche del cinema muto. L’accostamento non è provocatorio, poiché si assiste effettivamente ad uno show che lega l’altissimo coefficiente di difficoltà nell’esecuzione tecnica delle sue figure con una fruizione straniata da parte del pubblico: si annulla ogni mimesi tra performer e spettatori, i primi compenetrati in uno sforzo totalizzante sotto il cerone madido di sudore e la maschera sorridente; i secondi distesi e divertiti, intimamente alleggeriti. C’è senza dubbio in questa chimica peculiare una ricerca della compagnia verso i modi del teatro popolare, a cui si intende abbinare una maestria non artigianale, in cui si notano bensì tutti gli anni di alta formazione e l’educazione ad una pratica di studio costante. Le maschere –cui si accennava metaforicamente sopra- sono presenti materialmente, in una soluzione plastica che permette di seguire i movimenti facciali dell’attore. A questo strumento di ascendenza preclassica e di vitalità teatrale insopprimibile si demanda il compito formale di rendere visivamente la vecchiaia dei “personaggi” tratteggiati dai due attori, mentre sul piano strumentale la maschera serve a renderli indistinguibili ed intercambiabili all’occhio del pubblico, in quello che si presenta come uno spettacolo di fine illusionismo privo di reali personaggi e di profondità psicologica. Come nel gioco di prestigio, tutte le componenti materiali della scatola scenica vengono investite di una funzione calcolata: la prossimità dell’azione con le quinte o con il fondale, la frapposizione di diaframmi scenografici, la visuale prospettica nella scelta di pose, posture e posizioni sul palcoscenico. Il buio stesso finge di possedere una finalità drammaturgica, mentre asseconda in realtà l’esecuzione del trucco, accompagnando il gioco di scambi tra fantocci e figure umane, quindi tra uomo e uomo dove lo spettacolo raggiunge il suo vertice. Accompagna l’azione una base sonora registrata, ben calibrata con i diversi momenti dello spettacolo.

Lunedì 21 Settembre
Ore 21. Spazio Matta. La quarta ed ultima giornata di Scenari Europei si apre con Pisci ‘e Paranza altro spettacolo premiato con la segnalazione speciale a Scenario 2015. Mario De Masi, allievo di Carlo Cerciello, firma la sua prima regia dirigendo un gruppo di cinque attori di diversa estrazione. In realtà il lavoro mostra le caratteristiche della collaborazione d’ensemble, ma si nota altresì la mano di una guida esterna nell’omogeneità pressoché piena raggiunta dai diversi interpreti in termini di recitazione ed intensità. Lavoro di forte marca territoriale, per linguaggio e per riferimenti a luoghi e situazioni legate alla realtà campana. La stazione ferroviaria funge da ambientazione per la vicenda ma soprattutto da situazione scenica e drammaturgica, in cui il lavoro di gruppo trova appigli efficaci. Si nota soprattutto nel quadro iniziale il materiale prodotto tramite il lavoro laboratoriale, dove dal movimento nello spazio e dalla sovrapposizione delle voci in crescendo si giunge alla quiete ed agli assoli brevi dei singoli personaggi. La scenografia è assente, così come il disegno luci è privo di connotazioni. L’unico elemento addizionale rispetto alla pura organicità degli attori è dato dalla presenza di un giocattolo a pile, che si agita tra lucine intermittenti ed effetti sonori in loop (manca tra l’altro ogni accompagnamento musicale). Ben presto il gruppo di bizzarre macchiette si divide in due fazioni distinte e contrapposte: inizialmente si nota una semplice contrapposizione fisica, con la linea dei cinque attori che si spezza in due segmenti fatti rispettivamente di due e di tre membri. Eppure è proprio in questa essenzialità materiale che condensa il conflitto su cui può montare il dramma: l’altro come intruso, la contesa territoriale, la maggioranza fisica come condizione che coagula l’istinto ferino alla sopraffazione. L’immagine viene elaborata con una buona mistura di studiata convenzione ed abilità genuina. La vista dello spettatore mette a fuoco lentamente le differenze di abbigliamento e di comportamento che in un primo momento si erano mimetizzate nella coralità. Le due fazioni diventano quelle della città e della provincia, dei locali e dei forestieri, degli stanziali e dei pendolari, dando vita ad una serie efficace di rivalità e riappacificazioni repentine, dove convince soprattutto l’intensità di una recitazione parossistica e musicale, che raggiunge punte di bravura autentica. I singoli attori recitano in un fazzoletto di spazio come equilibristi appesi ad una volontaria bidimensionalità, per una scelta registica che è più sfida (peraltro vinta) che stilema.
L’impianto drammaturgico -non sempre solido e coeso, nonché piuttosto leggibile nelle trame che cuciono assieme gli sketch di cui si compone- incede però sulla spinta di una fantasia frizzante, che in più di un’occasione scuote la performance dalla sua meccanicità laboratoriale. Per la copresenza di questo medesimo magma di caratteristiche, incuriosisce particolarmente il prosieguo di questo lavoro in vista della sua versione completa.

Ore 22. Florian Espace: La chiusura di Scenari Europei è affidata alla carica tellurica di Caroline Baglioni, assicurandosi un finale di sicuro effetto. Il suo Gianni (vincitore del Premio Scenario per Ustica 2015) è uno spettacolo che senza mezze misure lavora su corde emozionali profonde, e la performance dell’interprete in scena protende verso le forme di una azione sciamanica capace di agire all’interno degli spettatori con virulenza irrazionale, carpendone di forza la partecipazione. Il linguaggio performativo reinventato dall’attrice umbra fonde assieme parola e corpo, fisicizzando il testo senza privarlo di protagonismo. Siamo agli antipodi del realismo ma anche pienamente al di qua della tentazione biomeccanica, in un equilibrio nervoso in cui la ricchezza scenica non è mai barocca né tende mai al virtuosismo. Al contrario siamo al cospetto di una “opulenza povera”, denudata di ogni inutile orpello, ove ciò che resta è immagine pura, carica di potenza visuale. Caroline Baglioni è già in scena in un cono di luce fioca quando gli spettatori guadagnano la sala; è di spalle e regge il peso di un oggetto voluminoso di cui non si distingue l’entità. Ben presto scopriamo che si tratta di un groviglio di scarpe ove si mescolano modelli maschili e femminili, quando l’attrice si volta e scarica fragorosamente il suo fardello sul lato sinistro del palco. E’ l’attacco dello spettacolo, un codice interno alla performance, un’apertura di sipario sotto forma di azione che ben rende quel lavoro per immagini semplici ed energiche cui si accennava poc’anzi. Pur senza diaframmi, la scena risulta divisa in due zone distinte: Caroline inizia a recitare mantenendosi sul lato destro del palco, intrecciando meditazioni da diario -distribuite su di una dizione dilatata- con movimenti dalla ripetitività rituale: spesso si muove in circolo su se stessa con una mano sul fianco, simulando con l’altra l’esistenza di una sigaretta perennemente accesa, compagna di divagazioni filosofiche e non, ma anche metronomo per quella che è una attenta coreografia gestuale e musicale. La sigaretta fantasmatica impone ritmo e pausa alla parola, connotando allo stesso tempo figura ed anima di un personaggio ibrido. Nel suo delicato abitino color lavanda, Caroline dona voce e corpo al personaggio di Gianni, un parente affetto da manie depressive, che in segreto incideva su kilometri di nastro audio le istantanee di una vita marginale. Ai piedi indossa due scarpe diverse, una da donna intonata con i colori e le proporzioni della figura, una da uomo visibilmente fuori misura. La circolarità del movimento ricorrente richiama l’immagine del disco o del nastro che gira e che improvvisamente assume consistenza propria, quando la parola dell’attrice si ferma per lasciar spazio alla traccia registrata. Allo stesso modo di tanto in tanto si intersecano note e parole di canzoni che irrorano un sapore domenicale lontano, la sospensione onirica su di una esistenza magra riempita dal gracidare di una radio. Il soliloquio dell’io protagonista è amplificato senza patetismi in scena dalla performer, che direziona la sua voce verso punti isolati nel vuoto come interlocutori immaginari, ora in quinta, ora a terra. L’azione si articola in quadri concentrici, in cui il motivo portante si reitera: una serie di rintocchi bussa sulla parola liquida interrompendola repentinamente, come la presenza di un destino che sollecita il proprio riconoscimento o il pulsare di un’esistenza che mantiene il proprio mistero ad onta di illusioni ed apparenze. Questi passaggi sono segnati da un cambio di scarpe che l’attrice opera rapidamente, mantenendo l’abbinamento cross-gender. Quel cumulo variegato di oggetti vissuti e consunti - che condensa il senso dei giorni andati e la fragilità di quanto non sopravvive - domina la scena nel suo silenzio inerte, amplificato da un microfono che pende dall’alto. Caroline Baglioni dosa con rigore la carica dei suoi mezzi recitativi, che lascia esplodere al momento giusto in un climax febbricitante, dove la parola diventa energia piena che agita capelli e braccia per un ultimo spasmo, un ultimo moto di vita e libertà.
Paolo Verlengia

"SCENARI EUROPEI"
PROGRAMMA COMPLETO

venerdì 18 settembre 2015
ore 21 SPAZIO MATTA
Muré Teatro (Pescara)
COURAGE! finalista Premio Scenario 2015 Durata 20' (Studio)
di Francesca Camilla D'Amico
con Francesca Camilla D'Amico, Martina Morgione, Marcello Sacerdote
musiche Sebastian Giovannucci

ore 22 FLORIAN ESPACE
Bluemotion (Roma)/Sandrine Roche (Francia)
GUANCE ROSSE in collaborazione con PAV progetto FABULAMUNDI. Playwriting Europe
mise en espace durata 50'
testo Sandrine Roche
traduzione Gioia Costa
regia Giorgina Pi
con Valentina Acca, Aglaia Mora, Laura Pizzirani

sabato 19 settembre
ore 21 SPAZIO MATTA
Carmen Nubla (Spagna)
RAICES Y ALAS. De leyendas, historias y otros viajes progetto “L'EUROPA è QUI
(Radici e ali. Leggende, storie ed altri viaggi) primo studio in lingua spagnola Durata 25'
un progetto di Giulia Basel e Carmen Nubla
di e con Carmen Nubla
collaborazione tecnica Globster
regia Giulia Basel

ore 22 FLORIAN ESPACE
Blu Teatro (Roma)/Andreea Valean (Romania)
IO SE VOGLIO FISCHIARE, FISCHIO
in collaborazione con PAV progetto FABULAMUNDI. Playwriting Europe
Durata 50'
testo Andreea Valean
traduzione Roberto Merlo
regia Luca Bargagna
con Viviana Altieri, Vincenzo D'Amato, Davide Gagliardini, Alessandro Meringolo, Massimo Odierna

domenica 20 settembre
ore 21 SPAZIO MATTA
Mad in Europe (Varese)
MAD IN EUROPE Uno spettacolo in lingua originale
Vincitore Premio Scenario 2015 Durata 20' (Studio)
di e con Angela Dematté
scene e costumi Ilaria Ariemme
disegno luci e audio Marco Grisa
regia del gruppo Mad in Europe

ore 22 FLORIAN ESPACE
DispensaBarzotti (Torino)
HOMOLOGIA Segnalazione speciale Premio Scenario 2015 Durata 20' (Studio)
con Rocco Manfredi, Riccardo Reina
luci Riccardo Reina
puppet Rocco Manfredi
regia e suono Alessandra Ventrella

lunedì 21 settembre
ore 18 laFeltrinelli
CRISTINA VALENTI docente di storia del Nuovo Teatro al Dams di Bologna e direttrice artistica del Premio Scenario
"Generazioni del nuovo. Tre anni con il Premio Scenario" Titivillus Edizioni
presentazione del libro e incontro con l'autrice a cura di PIPPO DI MARCA, autore e regista, codirettore artistico del Florian Metateatro

ore 21 SPAZIO MATTA
Mario De Masi (Montefredane - Avellino)
PISCI 'E PARANZA Segnalazione speciale Premio Scenario 2015 Durata 20' (Studio)
progetto e regia Mario De Masi
con Andrea Avagliano, Serena Lauro, Fiorenzo Madonna, Rossella Miscino, Luca Sangiovanni

ore 22 FLORIAN ESPACE
Caroline Baglioni (Perugia)
GIANNI Vincitore Premio Scenario per Ustica 2015 Durata 20' (Studio)
di e con Caroline Baglioni
assistente alla regia-tecnica Nicol Martini
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INTERMEZZI MUSICALI: Massimiliano Elia, Francesca Corallo, Irida Gjergji Mero, Silvia Liberatore, Flavio Piermatteo, Renato Barattucci

INCONTRI CON LE COMPAGNIE a cura di Giulia Basel, Massimo Vellaccio, Paolo Verlengia

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