"Scenari Europei"
DIARIO DEL FESTIVAL
Venerdì
18 settembre 2015.
Ore
21. Spazio Matta. La prima giornata propone due
formazioni di diversa estrazione, avvicinate da una comune visione di
fondo, in cui l'arte si fonde con l'impegno civile e politico. Aprono
le danze i Muré Teatro, giovanissima formazione pescarese nata nel
2012, fresca reduce da una brillantissima partecipazione al Premio
Scenario 2015, suggellata dal raggiungimento della finale di
Santarcangelo. Si tratta di un risultato storico per la realtà
teatrale abruzzese, che si conferma dopo l'exploit di Serena di
Gregorio nella scorsa edizione (prima finalista abruzzese in assoluto
nella storia di Scenario). I Muré propongono il loro Courage,
termine francese per “coraggio” qui inteso ad un tempo come
riferimento drammaturgico a Brecht e come oggetto etimologico, dove
il concetto di base è una esortazione alla prova di “cuore” anzi
che alla prova di forza, a nutrire un coinvolgimento pieno e sincero
per l’esistenza, l’esistente e le vicende umane che l’abitano.
Le vicende che invece abitano lo spettacolo sono tratte
dall’attualità, ma vengono trattate con intelligenza
scenica e metabolizzate sotto forma di immagini eminentemente
teatrali. La scena presenta un fondale di fattura volutamente
artigianale ove predominano le tinte azzurre, sorretto da una robusta
armatura in ferro nero. Sul lato destro è presente una postazione
per musica, con tastiera e sgabello posti perpendicolarmente alla
linea di proscenio. Il progetto scenico rivela dunque sin dalle
premesse esteriori un’idea ben precisa di spettacolo: la dimensione
meta-teatrale, lo svelamento delle convezioni di scena come metodo
organico per lo sviluppo dell’intera azione. Ma da Brecht viene
carpito innanzi tutto l’uso della musica come elemento strutturale,
che non si aggiunge allo spettacolo in funzione di accompagnamento o
alleggerimento, bensì partecipa alla sua costruzione materiale sul
piano drammaturgico, intrecciandosi in maniera indissolubile con le
battute degli attori, incidendo sulla scelta delle parole e sulla
loro ricezione da parte del pubblico, invaso quest’ultimo da una
molteplicità di registri comunicativi (va rilevato l’intervento
oculato anche dell’effettistica registrata, tra tracce musicali e
pure sonorità ambientali, come il mugghiare degli elementi
atmosferici). Alla spicciolata entrano i tre attori per comporre il
quadro di una giovane compagnia dai tratti guitteschi (baffi posticci
sbilenchi, memoria imprecisa, interruzioni interne ed esterne)
impegnata tra mille dubbi (materiali prima che psicologici) nella
pretenziosa messinscena di Madre Courage, un manifesto del
teatro engagé, un terreno scivoloso dove “toppare” è
vietato quanto facile. C’è persino il carro della celeberrima
eroina brechtiana, dotato di ruote e realizzato con assi di legno
mobili, capaci di farlo modulare in un gioco di aperture e
trasformazioni vicine ad uno spettacolo d’illusionismo da circo
popolare. Si aggiunge presto il quarto elemento della compagnia, il
musicista, che prende posto nella sua postazione laterale, e
l’attrice che si era brechtianamente prodotta in un breve prologo
attraversato da interpolazioni dialettali si sdoppia nel ruolo ora di
suggeritrice, ora di personaggio. La territorialità è un altro
punto focale dello spettacolo, alimentato in forma sia linguistica
che musicale: gli strumenti acustici proliferano progressivamente in
scena, recuperando dalla tradizione locale, pur sperimentata entro
ambientazioni esotiche, che trasferiscono l’azione verso latitudini
lontane ed intermittenti, a fungere da didascalia senza testo. Qui si
coglie il valore effettivo dello spettacolo, che non è un brillante
esame di maturità sulla lezione della recitazione epica, ma un pezzo
di teatro autonomo. La maturità dei Muré viene fuori limpida nel
coraggio di superare Brecht e nei modi di far propri degli
strumenti, non già dei modelli né dei dogmi. Il carro rubato a
Brecht diventa ora nave, ora interno domestico, ma soprattutto
palcoscenico nel palcoscenico, per un effetto di inquadratura
dell’azione simile allo zoom cinematografico, benché il
richiamo immediato sembrerebbe orientare verso un teatrino di
marionette. Il pregio più autentico di Courage è proprio
quello di mantenersi in equilibrio tra più cifre teatrali senza
disperderne nessuna, né di appiattirsi monoliticamente su di una
soltanto. La marca popolare dell’impianto convive con la
ricercatezza formale e visiva raggiunta in alcuni passaggi, così
come gli sketch istrionici da rivista lasciano spazio alle
scene mute caricandole di potenza ieratica. Restano da registrare
alcuni equilibri interni e da valorizzare a pieno tutti i moduli
impiegati, ma l’auspicio più complessivo è che lo spettacolo
–presentato per l’occasione in forma di studio di 20 minuti-
mantenga la stessa impaginazione iperveloce anche nella sua forma
compiuta, cedendo ogni tentazione di didascalismo a favore della cura
sintattica dei meccanismi di cui lo spettacolo si compone. Muré
Teatro è composto da Francesca Camilla D’Amico, Marcello
Sacerdote, Martina Morgione, Sebastian Giovannucci. Ad Maiora!
Ore
22, Florian Espace. La seconda parte della prima serata vede
protagonista Bluemotion, corposo collettivo romano che si divide tra
interessanti progetti teatrali e musicali all’interno dello spazio
occupato Angelo Mai. Per l’occasione la regista Giorgina Pi dirige
un terzetto tutto femminile composto da Valentina Acca, Aglaia Mora e
Laura Pizzirani. Il lavoro consiste in una raffinata mise en
espace di Guance Rosse, testo della drammaturga francesce
Sandrine Roche, classe 1970. Il titolo racchiude le coordinate
principali del lavoro drammaturgico prodotto dall’autrice: una
rivisitazione della fiaba per antonomasia, quella di "Cappuccetto
Rosso", sottratta ad ogni finalità didattica o narrativa, come
base inquieta della pura psiche dei personaggi che la abitano. In
questo modo, scivolano via tutti i componenti fondamentali per la
mera struttura del racconto, mentre guadagnano visibilità e
superficie quelli che innervano la complessità dei rapporti umani.
Prende così forma un trittico complesso di figure femminili
attraversate da legami forti e contraddittori, eppure naturali come
sono i legami di sangue. Il rosso naive del racconto da
cuscino vira verso le tonalità umbratili di ciò che unisce e separa
le tre età della donna, attraverso i monologhi -ora espliciti, ora
interiori- di una figlia, una madre e una nonna.
La
scena scarna è attraversata da una luce fioca, simile ad uno strato
di nebbia, sufficiente a rivelare la presenza delle tre attrici
immobili sullo sfondo. Al centro del palco si riconosce un piccolo
tavolo; in proscenio, abbiamo una sedia sul lato sinistro ed un
microfono ad asta su quello destro. Una base registrata diffonde un
"effetto vento", a completare il quadro di una quiete fragile, soltanto
apparente. Il tappeto sonoro –composizione originale dalla squadra
Blumotion- si dipana in suoni sintetici aspri ed aritmici,
accompagnando con perfetto dosaggio d’intensità l’intera
lunghezza della recitazione. Questa si compone a sua volta di tre
monologhi di quindici minuti circa, ognuno dedicato ad un singolo
personaggio del trittico.
Le
tre attici si distribuiscono sullo spazio scenico: una guadagna il
microfono ad asta restando in piedi; le altre si siedono andando ad
occupare una la sedia, l’altra la base del tavolo. Un fascio di
luce inquadra Veronica Acca, mentre le altre due attrici rimangono
immobili nelle loro postazioni nella semioscurità. Si attiva così
il primo personaggio. Indossa una felpa rossa con cappuccio sopra di
un disinvolto paio di blue jeans. E’ lei ciò che resta del
personaggio originario di Cappuccetto Rosso, che in questo risveglio
post-moderno veste i tratti della giovane donna, affacciata su di una
vita autonoma ma ancora pesantemente ingabbiata nel ruolo di figlia.
Le parole sono infatti rivolte alla madre, ma non si tratta di una
lettera, né di un puro monologo. La qualità delle parole è nervosa
e si addice ai modi del discorso diretto, al quale però è stato
sottratto l’interlocutore, il secondo termine del dialogo.
L’effetto che si crea è simile a quello di una telefonata di cui
si può sentire solo la parte pronunciata da un solo capo del
telefono. In questa partitura di mezze frasi, esitazioni, dilatazioni
ed accelerazioni improvvise, Veronica Acca è abilissima, riuscendo a
carpire e mantenere l’attenzione dello spettatore in una porzione
iniziale di testo, in cui le regole del gioco sono ancora poco
trasparenti.
Il cono di luce che ha ritagliato il rosso esplicito della figlia si spegne; la luce va ora a bagnare la seconda attrice, seduta in proscenio: perché si attivi anche il personaggio c’è bisogno di un codice scenico, come era la felpa rossa nel primo passaggio. Qui l’oggetto di transizione è una collana di perle, che Aglaia Mora lega rapidamente al collo accendendo di vitalità il personaggio della madre. Parola dopo parola, frase dopo frase, i brani del discorso disegnano una linea spezzata speculare al primo monologo, a cui si incastrano come i pezzi mancanti di un puzzle. Il dialogo che ora si ricompone chirurgicamente lascia però immutate le distanze, le inabilità formali di un amore pulsante, ma ancora incapace di articolarsi. Aglaia Mora è a dir poco spettacolare nell’innervare con talento ed esperienza ogni singola curvatura umorale della parte, fornendo una performance di assoluto dinamismo (mimico vocale) pur rimanendo nella gabbia posturale della sua sedia.
Il quadro si completa quando la luce viene ad isolare il terzo personaggio, la nonna. Qui l’oggetto di transizione è rappresentato da un paio di occhiali. Laura Pizzirani ha il merito di non aggiungere inutili connotazioni stereotipiche ad un personaggio lontano a lei per diverse decadi di età. La base registrata si interseca tra le battute dei tre assoli con voci fuori campo delle medesime attrici, a fungere da monologo interiore dove il personaggio esprime i suoi pensieri, le verità recondite spesso contraddette dalle parole condivise. Lavoro pregevole, per l’intelligenza della regia e la qualità delle attrici, tutte e tre attive sia in teatro che nel cinema. Dal punto di vista drammaturgico, convince soprattutto l’incastro dei primi due monologhi, mentre risulta rivedibile l’intero concetto del quadro finale.
Il cono di luce che ha ritagliato il rosso esplicito della figlia si spegne; la luce va ora a bagnare la seconda attrice, seduta in proscenio: perché si attivi anche il personaggio c’è bisogno di un codice scenico, come era la felpa rossa nel primo passaggio. Qui l’oggetto di transizione è una collana di perle, che Aglaia Mora lega rapidamente al collo accendendo di vitalità il personaggio della madre. Parola dopo parola, frase dopo frase, i brani del discorso disegnano una linea spezzata speculare al primo monologo, a cui si incastrano come i pezzi mancanti di un puzzle. Il dialogo che ora si ricompone chirurgicamente lascia però immutate le distanze, le inabilità formali di un amore pulsante, ma ancora incapace di articolarsi. Aglaia Mora è a dir poco spettacolare nell’innervare con talento ed esperienza ogni singola curvatura umorale della parte, fornendo una performance di assoluto dinamismo (mimico vocale) pur rimanendo nella gabbia posturale della sua sedia.
Il quadro si completa quando la luce viene ad isolare il terzo personaggio, la nonna. Qui l’oggetto di transizione è rappresentato da un paio di occhiali. Laura Pizzirani ha il merito di non aggiungere inutili connotazioni stereotipiche ad un personaggio lontano a lei per diverse decadi di età. La base registrata si interseca tra le battute dei tre assoli con voci fuori campo delle medesime attrici, a fungere da monologo interiore dove il personaggio esprime i suoi pensieri, le verità recondite spesso contraddette dalle parole condivise. Lavoro pregevole, per l’intelligenza della regia e la qualità delle attrici, tutte e tre attive sia in teatro che nel cinema. Dal punto di vista drammaturgico, convince soprattutto l’incastro dei primi due monologhi, mentre risulta rivedibile l’intero concetto del quadro finale.
Sabato
19 Settembre 2015
Ore
21. Spazio Matta. La seconda giornata si apre con Raices y
Alas. De leyendas y otros viajes di Carmen Nubla, interprete
spagnola da qualche anno di stanza in Italia. Il lavoro vede la regia
di Giulia Basel all’interno del progetto “L’Europa è Qui”
firmato dalla stessa per Florian Metateatro. Il progetto nasce
dall’idea di produrre o valorizzare spettacoli in lingua originale
relativamente alle principali culture europee ed in questo caso la
musicalità nonché la vicinanza linguistica dello spagnolo si
rivelano uno strumento aggregante per la partecipazione del pubblico.
Carmen
Nubla intesse un racconto in cui l’autobiografia apre a digressioni
e suggestioni ispirate alle tradizioni culturali di Spagna ed Italia,
tracciando un itinerario di luoghi, leggende ed icone storiche
caratterizzate da un legame forte tra i due paesi: l’imperatore
Traiano, Seneca ed Ovidio, Cristoforo Colombo, Cervantes, Lorca.
Parimenti si ripercorrono le tappe del percorso vissuto dall’artista
nel perseguimento del sogno di recitare, dalla piccola Trujillo nella
lontana Estremadura alla centralità della capitale Madrid, fino a
Roma ed all’Abruzzo, venendo a chiudere non la linea di un
allontanamento dalle radici, ma la circolarità di una ricerca
esperienziale, dove i panorami dell’ultima tappa del viaggio
richiamano in qualche tratto quelli del luogo di partenza e
d’origine.
L’interprete
accompagna l’eloquio con una gestica assai pulita nella forma e
quasi pedagogica nei modi, per poi lasciare progressivamente spazio a
momenti di maggior codificazione performativa.
Viene
allora fuori tutto l’eclettismo di Carmen Nubla, formata alla
recitazione stanislavskijana, ma anche cantautrice e pedagoga. Qui si
divide tra momenti musicali di voce e chitarra e passaggi recitati
con pathos, senza disdegnare qualche accenno di danza. Lo spettacolo
(presentato in forma di studio di 25 minuti) sfiora talvolta gli
stereotipi dell’ispanismo senza però mai cavalcarli realmente.
Convincente la presenza scenica di Carmen Nubla specie nei passaggi
performativi, che vengono porti con una delicatezza agli antipodi
della mattatorialità. Proprio questa misura fine tra virtuosismo e
candore si afferma come il linguaggio portante di uno spettacolo che
vive fortemente delle vibrazioni della sua interprete.
Il
lavoro mostra di incontrare l’apprezzamento del pubblico, per nulla
distanziato dal filtro linguistico. Particolarmente graditi risultano
i momenti canori, in cui la performer si offre in una gamma pregevole
di registri vocali, alternando l’uso del microfono a quello della
nuda voce.
La
performance, in questa sua forma di primo studio, termina in un
crescendo che lascia ben sperare per il prosieguo del lavoro. Il
confronto con il pubblico, ampiamente rassicurante in fatto di
ricezione degli snodi argomentativi, sembrerebbe incoraggiare verso
l’impaginazione di momenti performativi, andando ad asciugare le
parentesi didascaliche.
Ore
22. Florian Espace. La seconda giornata continua all’insegna
dell’internazionalità. I Bluteatro propongono Io,
se voglio fischiare, fischio della drammaturga
rumena Andreaa Valean, particolarmente apprezzata per l’attenzione
rivolta alle realtà sociali più nascoste. Da un adattamento della
pièce è stata tratta l’omonima pellicola cinematografica
premiata nel 2010 a Berlino con L’Orso d’Argento. Ed in effetti
la prossimità con il linguaggio cinematografico si ritrova
pienamente guardando alla messinscena proposta da Bluteatro. Loro
sono una compagnia giovane ma già piuttosto esperta, formatasi da
una classe di attori dell’Accademia Silvio D’Amico diplomati nel
2010. Si nota l’affiatamento di chi si conosce da tempo sul piano
personale ed artistico, ma con maggiore probabilità l’amalgama
proviene principalmente da una generosità attorica ancora
immacolata, sospinta dal talento autentico. E’ un lavoro che
sorprende innanzi tutto perché si basa su di una recitazione
integralmente realistica, fatto a dir poco inusitato nel panorama
contemporaneo. Sì perché non si parla del realismo convenzionale e
di mestiere contro cui si continua a sbattere in tanto teatro di
repertorio (dai cartelloni ufficiali alle filodrammatiche), ma di una
immedesimazione attorica che sa quasi di Actor Studio (e di cinema,
per l’appunto).
Non si spende la definizione di naturalismo soltanto per cautela etimologica, visto che le scodelle, i piatti ed i bicchieri che vengono utilizzati in scena non contengono materialmente cibo o bevande; stesso discorso vale per la scenografia fatta di un tavolo e sei sedie. Ma in termini di rapporto intimo tra interprete e personaggio, di scavo psicologico e di incarnazione, l’aggettivazione naturalistica ci starebbe tutta. Ed il banco di prova della vituperata verosimiglianza necessita di talento e qualità cristallina per non cadere nel mestiere o nello spontaneismo.
La cifra stilistica della messinscena segue senza dubbio la traccia dettata dal testo, che viene approcciato con mano lieve e senza un piano di regia più aggressivo o connotato; il lavoro rientra nel progetto Fabulamundi e la performance dei Bluteatro mira conseguentemente a porgere il testo nella forma più vicina alle caratteristiche dell’originale. Detto questo, gli interpreti si mettono a totale servizio del testo senza nulla perdere in luminosità individuale e corale, riuscendo a reggere senza la minima sbavatura la tensione dei loro personaggi lungo i tempi lunghi di uno spettacolo completo, articolato in cinque quadri intervallati da transizioni di buio. Vincenzo D’Amato e Alessandro Meringolo sono monumentali nel sostenere le due assi portanti (ed antitetiche) della drammaturgia messa a punto da Andreaa Valean, ma non sono da meno Massimo Odierna e Viviana Altieri nel riempire le polarità drammatiche più instabili, così come Davide Gagliardini completa l’affresco con ciò che resta del ruolo brillante in una trama dalle sfumature oscure. La vicenda è ambientata in un carcere minorile per soli maschi, un microcosmo dove vigono regole non scritte e gerarchie di anzianità tra detenuti. Rispetto a questa realtà, si dimostra utopistico lo slancio di una giovane ricercatrice convinta delle possibilità di recupero da parte dei detenuti attraverso l’ascolto, il dialogo e la partecipazione attiva. Al culmine della tensione, Andreaa Valean sorprende con un colpo di teatro ed una svolta farsesca, in cui si respira l’estro di una fantasia balcanica.
Non si spende la definizione di naturalismo soltanto per cautela etimologica, visto che le scodelle, i piatti ed i bicchieri che vengono utilizzati in scena non contengono materialmente cibo o bevande; stesso discorso vale per la scenografia fatta di un tavolo e sei sedie. Ma in termini di rapporto intimo tra interprete e personaggio, di scavo psicologico e di incarnazione, l’aggettivazione naturalistica ci starebbe tutta. Ed il banco di prova della vituperata verosimiglianza necessita di talento e qualità cristallina per non cadere nel mestiere o nello spontaneismo.
La cifra stilistica della messinscena segue senza dubbio la traccia dettata dal testo, che viene approcciato con mano lieve e senza un piano di regia più aggressivo o connotato; il lavoro rientra nel progetto Fabulamundi e la performance dei Bluteatro mira conseguentemente a porgere il testo nella forma più vicina alle caratteristiche dell’originale. Detto questo, gli interpreti si mettono a totale servizio del testo senza nulla perdere in luminosità individuale e corale, riuscendo a reggere senza la minima sbavatura la tensione dei loro personaggi lungo i tempi lunghi di uno spettacolo completo, articolato in cinque quadri intervallati da transizioni di buio. Vincenzo D’Amato e Alessandro Meringolo sono monumentali nel sostenere le due assi portanti (ed antitetiche) della drammaturgia messa a punto da Andreaa Valean, ma non sono da meno Massimo Odierna e Viviana Altieri nel riempire le polarità drammatiche più instabili, così come Davide Gagliardini completa l’affresco con ciò che resta del ruolo brillante in una trama dalle sfumature oscure. La vicenda è ambientata in un carcere minorile per soli maschi, un microcosmo dove vigono regole non scritte e gerarchie di anzianità tra detenuti. Rispetto a questa realtà, si dimostra utopistico lo slancio di una giovane ricercatrice convinta delle possibilità di recupero da parte dei detenuti attraverso l’ascolto, il dialogo e la partecipazione attiva. Al culmine della tensione, Andreaa Valean sorprende con un colpo di teatro ed una svolta farsesca, in cui si respira l’estro di una fantasia balcanica.
Domenica
20 Settembre 2015
Ore
21. Spazio Matta.
Con la terza giornata scendono in campo i componenti della
Generazione Scenario 2015 (ovvero l’insieme degli spettacoli vincitori dei 4 premi assegnati in ogni edizione: spettacolo vincitore "Premio Scenario"; spettacolo vincitore della "sezione Ustica" per il teatro di impegno civile; due segnalazioni speciali).
La partenza è di quelle forti: subito in scena la vincitrice di
Scenario 2015, Angela Demattè. Il titolo del lavoro, Spettacolo
in Lingua Originale,
gioca con gli strumenti raffinati della provocazione tautologica,
anticipando la traccia di una cifra che verrà mantenuta nel corso
dello spettacolo (anche questo, come i restanti lavori della
Generazione Scenario 2015, viene presentato in forma di studio da 20
minuti).
Angela Dematté giunge a questo prestigioso risultato nel pieno della
sua maturità artistica e personale, dopo una variegata esperienza
che l’ha fatta viaggiare dal musical alla tragedia greca, dai pupi
del Maestro Cuticchio al cinema, fino ad affermarsi come autrice
(Premio Riccione nel 2009 per un dramma sulle Brigate Rosse). La
regia di questo lavoro è un’operazione collettiva ed il gruppo di
lavoro –che annovera tra gli altri Roseanna Dematté, sorella
gemella di Angela- si firma “Mad in Europe”, un evidente gioco di
parole sulla base di un controverso sentimento di appartenenza
all’onnicomprensiva madre Europa, forse “casa-madre”, forse
marchio di fabbrica più che reale macro-nazione. Ma c’è anche la
diretta allusione alla follia, alla perdita di controllo o alla crisi
di identità raggiunta tramite una troppo rapida rimozione delle
radici. La mad in Europe
è anche il personaggio attorno al quale ruota lo spettacolo, figura
di una donna impazzita che ha dimenticato la sua madrelingua,
sostituendola con un pastiche
pluri-idiomatico che mescola assieme sintagmi e lemmi rubati con
disinvoltura da inglese, francese, tedesco e spagnolo, stando alle
espressioni più facilmente riconoscibili. Ma che forma di nevrosi è
quella che intacca la facoltà linguistica, e –andando al fondo del
quesito- cosa rappresenta per la nostra identità individuale la
lingua che parliamo? Il lavoro di Angela Dematté prende forma
attorno a questi dubbi filosofici, linguistici, antropologici,
proiettati sull’attualità come sul sempre. Tali premesse preparano
ad un lavoro di assoluta originalità, dato che in genere le prove
d’impegno e di ricerca si affidano per lo più alla coscienza
civile o al materiale di cronaca, prendendo volentieri di petto la
questione politica o la questione morale (ma sempre in un unico modo
e con un unico esito). Eppure il teatro è spietato più di altri
ambiti nel necessitare soluzioni materiali e sensoriali che
transustanzino sullo spazio fisico della scena la pura idea, la pura
profondità del significato, la pura essenza. E’ proprio qui che
Angela Dematté vince la sfida, andando a plasmare una situazione
scenica di non immediata ricezione nei suoi presupposti cerebrali
tutti, ma continuamente gravida di sorprese per lo spettatore, pur
giocando quasi sempre in sottrazione ed in decostruzione rispetto ad
ogni illusione appena creata. L’azione inizia al buio, dal quale
giunge il primo pastiche
linguistico pronunciato in proscenio. Quando la luce irrora la scena,
si nota una doppia fila di sedie di legno ed un pacco voluminoso
avvolto in un imballaggio ordinario. La Dematté gioca con questa
apparente ordinarietà, specie nella prima metà della performance;
si rivolge direttamente al pubblico uscendo fuori dal personaggio ed
introducendo alla vicenda come se fosse improvvisamente diventata
un’informatrice tecnica a servizio dello spettatore. Ma questa
escursione fuori dal personaggio (non certo innovativa in sé) non è
una pausa dallo spettacolo, bensì l’altra faccia di uno “show”
strutturalmente bifronte. La comunicazione di servizio si trasforma
presto in un monologo grondante, dove ogni espressione è artatamente
ricercata,
come fosse davvero abbandonata alla nervosa improvvisazione del
momento,
eppure sempre tesa verso elucubrazioni colte. La situazione crea
meccanismi comici spassosi, con il discorso che si impantana più
volte nella doppia, tripla, quadrupla aggettivazione, nei modi di un
redivivo teatro dell’assurdo sfrondato da inutili manierismi o
narcisismi. Angela Demattè governa con maestria attorica la linea
ambigua di uno spettacolo fintamente trasandato e fintamente buffo,
dissimulando nell’atto stesso del suo farsi la propria maestria
scenica e la profondità della sua creazione. Allo stesso modo, il
ritorno al personaggio della donna impazzita, -la
mad eponima,
soccorsa artigianalmente nei locali poliglotti della Commissione
Europea - fornisce motivi di divertimento gustoso proprio mentre si
svela con procedimento iconico il concetto centrale del lavoro: la
maternità,
nella sua sostanza biologica e simbolica, estendendosi alla
dimensione pristina dell’origine di ogni cosa, come la madrelingua,
come una cultura che ci ingloba e ci priva di identità propria, fino
al punto di non poter scegliere più individualmente, fino al punto
di rinnegarla in un anelito di libertà,
accettando di perdere memoria di noi stessi, di tutto quanto
credevamo di essere, di possedere e di portare sottopelle.
Ore
22. Florian Espace. Completa la terza serata Homologia
della Dispensa Barzotti, compagnia parmense di recente costituzione
(2014). Al duo originario –formato dalla regista Alessandra
Ventrella e dall’attore Rocco Manfredi– si unisce qui Riccardo
Reina, anch’egli attore. Lo spettacolo, premiato con una
segnalazione speciale al Premio Scenario 2015, fonda infatti su di un
meticoloso lavoro a due che parte da una riflessione sul
comportamento umano e sul concetto di omologazione. La scelta
principale sul piano del metodo e del linguaggio sta nella rinuncia
totale alla parola in scena, caricando ogni cura ed attenzione sullo
sviluppo del linguaggio non verbale. Non si tratta di un esperimento
assoluto per la Dispensa Barzotti, che nel primo anno di vita è
stata protagonista di un progetto itinerante dal sapore antico, con
la messa a punto di un teatrino ambulante per marionette lanciato
lungo le strade e le piazze d’Italia. Ed in effetti si nota in
Homologia lo studio analitico di una tecnica di figura che da
tale protende sempre più verso i canoni del linguaggio teatrale
completo. La scena si apre su di una poltrona girata spalle al
pubblico, al quale viene posto subito il primo problema di illusione
o di dubbio ottico: si intuisce una presenza seduta alla poltrona,
per effetto delle ciocche di una parrucca bianca che sormontano la
spalliera. L’immobilità criptica di questa immagine si rompe
quando subentra il suono di una sveglia o un’altra soneria: la
presenza ipotetica conferma allora la sua effettiva esistenza e
consistenza umana (non si trattava di un fantoccio!), muovendosi
convulsamente alla ricerca dell’impertinente sorgente sonora. Nel
parapiglia una tazza cade fragorosamente a terra, ripristinando la
quiete iniziale, con un uso dei tempi di scena e della tensione
propri della drammaturgia tout court (viene in mente su tutti
il primo Pinter). Nel prosieguo invece lo spettacolo sacrifica questa
completezza alla ricerca della perfezione dell’effetto,
raggiungendo risultati notevoli in termini di precisione. La comicità
prende il posto della tensione drammatica, accompagnata dal vivo
gradimento del pubblico, che risponde con una partecipazione da
numero circense o in maniera simile a come avveniva in altri tempi
per le comiche del cinema muto. L’accostamento non è provocatorio,
poiché si assiste effettivamente ad uno show che lega l’altissimo
coefficiente di difficoltà nell’esecuzione tecnica delle sue
figure con una fruizione straniata da parte del pubblico: si annulla
ogni mimesi tra performer e spettatori, i primi compenetrati in uno
sforzo totalizzante sotto il cerone madido di sudore e la maschera
sorridente; i secondi distesi e divertiti, intimamente alleggeriti.
C’è senza dubbio in questa chimica peculiare una ricerca della
compagnia verso i modi del teatro popolare, a cui si intende abbinare
una maestria non artigianale, in cui si notano bensì tutti gli anni
di alta formazione e l’educazione ad una pratica di studio
costante. Le maschere –cui si accennava metaforicamente sopra- sono
presenti materialmente, in una soluzione plastica che permette di
seguire i movimenti facciali dell’attore. A questo strumento di
ascendenza preclassica e di vitalità teatrale insopprimibile si
demanda il compito formale di rendere visivamente la vecchiaia dei
“personaggi” tratteggiati dai due attori, mentre sul piano
strumentale la maschera serve a renderli indistinguibili ed
intercambiabili all’occhio del pubblico, in quello che si presenta
come uno spettacolo di fine illusionismo privo di reali personaggi e
di profondità psicologica. Come nel gioco di prestigio, tutte le
componenti materiali della scatola scenica vengono investite di una
funzione calcolata: la prossimità dell’azione con le quinte o con
il fondale, la frapposizione di diaframmi scenografici, la visuale
prospettica nella scelta di pose, posture e posizioni sul
palcoscenico. Il buio stesso finge di possedere una finalità
drammaturgica, mentre asseconda in realtà l’esecuzione del trucco,
accompagnando il gioco di scambi tra fantocci e figure umane, quindi
tra uomo e uomo dove lo spettacolo raggiunge il suo vertice.
Accompagna l’azione una base sonora registrata, ben calibrata con i
diversi momenti dello spettacolo.
Lunedì
21 Settembre
Ore
21. Spazio Matta. La quarta ed ultima giornata di
Scenari Europei si apre con Pisci ‘e Paranza altro
spettacolo premiato con la segnalazione speciale a Scenario 2015.
Mario De Masi, allievo di Carlo Cerciello, firma la sua prima regia
dirigendo un gruppo di cinque attori di diversa estrazione. In realtà
il lavoro mostra le caratteristiche della collaborazione d’ensemble, ma si nota altresì la mano di una guida esterna
nell’omogeneità pressoché piena raggiunta dai diversi interpreti
in termini di recitazione ed intensità. Lavoro di forte marca
territoriale, per linguaggio e per riferimenti a luoghi e situazioni
legate alla realtà campana. La stazione ferroviaria funge da
ambientazione per la vicenda ma soprattutto da situazione scenica e
drammaturgica, in cui il lavoro di gruppo trova appigli efficaci. Si
nota soprattutto nel quadro iniziale il materiale prodotto tramite il
lavoro laboratoriale, dove dal movimento nello spazio e dalla
sovrapposizione delle voci in crescendo si giunge alla quiete ed agli
assoli brevi dei singoli personaggi. La scenografia è assente, così
come il disegno luci è privo di connotazioni. L’unico elemento
addizionale rispetto alla pura organicità degli attori è dato dalla
presenza di un giocattolo a pile, che si agita tra lucine
intermittenti ed effetti sonori in loop (manca tra l’altro
ogni accompagnamento musicale). Ben presto il gruppo di bizzarre
macchiette si divide in due fazioni distinte e contrapposte:
inizialmente si nota una semplice contrapposizione fisica, con la
linea dei cinque attori che si spezza in due segmenti fatti
rispettivamente di due e di tre membri. Eppure è proprio in questa
essenzialità materiale che condensa il conflitto su cui può montare
il dramma: l’altro come intruso, la contesa territoriale, la
maggioranza fisica come condizione che coagula l’istinto ferino
alla sopraffazione. L’immagine viene elaborata con una buona
mistura di studiata convenzione ed abilità genuina. La vista dello
spettatore mette a fuoco lentamente le differenze di abbigliamento e
di comportamento che in un primo momento si erano mimetizzate nella
coralità. Le due fazioni diventano quelle della città e della
provincia, dei locali e dei forestieri, degli stanziali e dei
pendolari, dando vita ad una serie efficace di rivalità e
riappacificazioni repentine, dove convince soprattutto l’intensità
di una recitazione parossistica e musicale, che raggiunge punte di
bravura autentica. I singoli attori recitano in un fazzoletto di
spazio come equilibristi appesi ad una volontaria bidimensionalità,
per una scelta registica che è più sfida (peraltro vinta) che
stilema.
L’impianto
drammaturgico -non sempre solido e coeso, nonché piuttosto leggibile
nelle trame che cuciono assieme gli sketch di cui si compone-
incede però sulla spinta di una fantasia frizzante, che in più di
un’occasione scuote la performance dalla sua meccanicità
laboratoriale. Per la copresenza di questo medesimo magma di
caratteristiche, incuriosisce particolarmente il prosieguo di questo
lavoro in vista della sua versione completa.
Ore
22. Florian Espace: La chiusura di Scenari Europei è
affidata alla carica tellurica di Caroline Baglioni, assicurandosi un
finale di sicuro effetto. Il suo Gianni (vincitore del Premio
Scenario per Ustica 2015) è uno spettacolo che senza mezze misure
lavora su corde emozionali profonde, e la performance dell’interprete
in scena protende verso le forme di una azione sciamanica capace di
agire all’interno degli spettatori con virulenza irrazionale,
carpendone di forza la partecipazione. Il linguaggio performativo
reinventato dall’attrice umbra fonde assieme parola e corpo,
fisicizzando il testo senza privarlo di protagonismo. Siamo agli
antipodi del realismo ma anche pienamente al di qua della tentazione
biomeccanica, in un equilibrio nervoso in cui la ricchezza scenica
non è mai barocca né tende mai al virtuosismo. Al contrario siamo
al cospetto di una “opulenza povera”, denudata di ogni inutile
orpello, ove ciò che resta è immagine pura, carica di potenza
visuale. Caroline Baglioni è già in scena in un cono di luce fioca
quando gli spettatori guadagnano la sala; è di spalle e regge il
peso di un oggetto voluminoso di cui non si distingue l’entità.
Ben presto scopriamo che si tratta di un groviglio di scarpe ove si
mescolano modelli maschili e femminili, quando l’attrice si volta e
scarica fragorosamente il suo fardello sul lato sinistro del palco.
E’ l’attacco dello spettacolo, un codice interno alla
performance, un’apertura di sipario sotto forma di azione che ben
rende quel lavoro per immagini semplici ed energiche cui si accennava
poc’anzi. Pur senza diaframmi, la scena risulta divisa in due zone
distinte: Caroline inizia a recitare mantenendosi sul lato destro del
palco, intrecciando meditazioni da diario -distribuite su di una
dizione dilatata- con movimenti dalla ripetitività rituale: spesso
si muove in circolo su se stessa con una mano sul fianco, simulando
con l’altra l’esistenza di una sigaretta perennemente accesa,
compagna di divagazioni filosofiche e non, ma anche metronomo per
quella che è una attenta coreografia gestuale e musicale. La
sigaretta fantasmatica impone ritmo e pausa alla parola, connotando
allo stesso tempo figura ed anima di un personaggio ibrido. Nel suo
delicato abitino color lavanda, Caroline dona voce e corpo al
personaggio di Gianni, un parente affetto da manie depressive, che in
segreto incideva su kilometri di nastro audio le istantanee di una
vita marginale. Ai piedi indossa due scarpe diverse, una da donna
intonata con i colori e le proporzioni della figura, una da uomo
visibilmente fuori misura. La circolarità del movimento ricorrente
richiama l’immagine del disco o del nastro che gira e che
improvvisamente assume consistenza propria, quando la parola
dell’attrice si ferma per lasciar spazio alla traccia registrata.
Allo stesso modo di tanto in tanto si intersecano note e parole di
canzoni che irrorano un sapore domenicale lontano, la sospensione
onirica su di una esistenza magra riempita dal gracidare di una
radio. Il soliloquio dell’io protagonista è amplificato senza
patetismi in scena dalla performer, che direziona la sua voce verso
punti isolati nel vuoto come interlocutori immaginari, ora in quinta,
ora a terra. L’azione si articola in quadri concentrici, in cui il
motivo portante si reitera: una serie di rintocchi bussa sulla parola
liquida interrompendola repentinamente, come la presenza di un
destino che sollecita il proprio riconoscimento o il pulsare di
un’esistenza che mantiene il proprio mistero ad onta di illusioni
ed apparenze. Questi passaggi sono segnati da un cambio di scarpe che
l’attrice opera rapidamente, mantenendo l’abbinamento
cross-gender. Quel cumulo variegato di oggetti vissuti e
consunti - che condensa il senso dei giorni andati e la fragilità di
quanto non sopravvive - domina la scena nel suo silenzio inerte,
amplificato da un microfono che pende dall’alto. Caroline Baglioni
dosa con rigore la carica dei suoi mezzi recitativi, che lascia
esplodere al momento giusto in un climax febbricitante, dove la
parola diventa energia piena che agita capelli e braccia per un
ultimo spasmo, un ultimo moto di vita e libertà.
Paolo
Verlengia
"SCENARI EUROPEI"
PROGRAMMA COMPLETO
PROGRAMMA COMPLETO
venerdì
18 settembre 2015
ore
21 SPAZIO MATTA
Muré
Teatro (Pescara)
COURAGE!
finalista Premio Scenario 2015 Durata 20' (Studio)
di
Francesca Camilla D'Amico
con
Francesca Camilla D'Amico, Martina Morgione, Marcello Sacerdote
musiche
Sebastian Giovannucci
ore
22 FLORIAN ESPACE
Bluemotion
(Roma)/Sandrine Roche (Francia)
GUANCE
ROSSE in collaborazione con PAV progetto FABULAMUNDI.
Playwriting Europe
mise
en espace durata 50'
testo
Sandrine Roche
traduzione
Gioia Costa
regia
Giorgina Pi
con
Valentina Acca, Aglaia Mora, Laura Pizzirani
sabato
19 settembre
ore
21 SPAZIO MATTA
Carmen
Nubla (Spagna)
RAICES
Y ALAS. De leyendas, historias y otros viajes progetto
“L'EUROPA è QUI”
(Radici
e ali. Leggende, storie ed altri viaggi) primo studio in lingua
spagnola Durata 25'
un
progetto di Giulia Basel e Carmen Nubla
di
e con Carmen Nubla
collaborazione
tecnica Globster
regia
Giulia Basel
ore
22 FLORIAN ESPACE
Blu
Teatro (Roma)/Andreea Valean (Romania)
IO
SE VOGLIO FISCHIARE, FISCHIO
in
collaborazione con PAV progetto FABULAMUNDI. Playwriting Europe
Durata
50'
testo
Andreea Valean
traduzione
Roberto Merlo
regia
Luca Bargagna
con
Viviana Altieri, Vincenzo D'Amato, Davide Gagliardini, Alessandro
Meringolo, Massimo Odierna
domenica
20 settembre
ore
21 SPAZIO MATTA
Mad
in Europe (Varese)
MAD
IN EUROPE Uno spettacolo in lingua originale
Vincitore
Premio Scenario 2015 Durata 20' (Studio)
di
e con Angela Dematté
scene
e costumi Ilaria Ariemme
disegno
luci e audio Marco Grisa
regia
del gruppo Mad in Europe
ore
22 FLORIAN ESPACE
DispensaBarzotti
(Torino)
HOMOLOGIA
Segnalazione speciale Premio Scenario 2015 Durata 20'
(Studio)
con
Rocco Manfredi, Riccardo Reina
luci
Riccardo Reina
puppet
Rocco Manfredi
regia
e suono Alessandra Ventrella
lunedì
21 settembre
ore
18 laFeltrinelli
CRISTINA
VALENTI docente di storia del Nuovo Teatro al Dams di Bologna e
direttrice artistica del Premio Scenario
"Generazioni
del nuovo. Tre anni con il Premio Scenario" Titivillus
Edizioni
presentazione
del libro e incontro con l'autrice a cura di PIPPO DI MARCA, autore e
regista, codirettore artistico del Florian Metateatro
ore
21 SPAZIO MATTA
Mario
De Masi (Montefredane - Avellino)
PISCI
'E PARANZA Segnalazione speciale Premio Scenario 2015
Durata 20' (Studio)
progetto
e regia Mario De Masi
con
Andrea Avagliano, Serena Lauro, Fiorenzo Madonna, Rossella Miscino,
Luca Sangiovanni
ore
22 FLORIAN ESPACE
Caroline
Baglioni (Perugia)
GIANNI
Vincitore Premio Scenario per Ustica 2015 Durata 20' (Studio)
di
e con Caroline Baglioni
assistente
alla regia-tecnica Nicol Martini
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INTERMEZZI
MUSICALI: Massimiliano Elia, Francesca Corallo, Irida Gjergji Mero,
Silvia Liberatore, Flavio Piermatteo, Renato Barattucci
INCONTRI
CON LE COMPAGNIE a cura di Giulia Basel, Massimo Vellaccio, Paolo
Verlengia
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