“CIAULA
TO THE MOON”: PIU' CHE LUNA, UN ALTRO PIANETA
Gli
“nO” tornano con uno dei loro primi lavori, confermandosi tra le
formazioni più interessanti
del momento
Talvolta
accade. Nonostante i cori funerei vecchi e nuovi che sentenziano la
morte del teatro accompagnandone la vita -anche in epoca digitale-
capita con discreta frequenza di imbattersi in prove di assoluto
mestiere, innervate da rigore
tecnico e studiata inventiva. Ma proprio come in ogni ambito
dell'azione umana, l'eccellenza è lampo fugace che accende la notte
per un secondo e che per brillare necessita di uno sfondo, di un
orizzonte su cui stagliarsi, compatto, monotono, se non proprio buio.
Così
nell'arte, dove il lampo è più difficile da coltivare perché
atteso, costantemente preteso, anche da chi in realtà non cura il
proprio sguardo per riconoscerne il riverbero nella pioggia che
verrà.
Eppure,
talvolta accade.
Accade
di recarsi a teatro, di apprestarsi a vedere uno spettacolo come
“Ciaula to the Moon” degli nO (Dance first. Think later)
in cui le regole del gioco sono tutte dichiarate in partenza, quasi
in sprezzo alla sorpresa, che pure per molti è il sale in questo
mestiere. E forse proprio in
sprezzo di un mestiere che si contenta, si contempla,
dimenticando dell'arte fuoco e fatica.
Il
titolo di uno spettacolo costituisce se si vuole una categoria a sé
e si potrebbe studiarne tipologie e fenomenologia in rapporto al
dialogo inter-testuale che instaura con il primissimo pubblico: a
volte dichiara, a volte allude, a volte svia volutamente o
semplicemente solletica, con seduzione tecnicale più o meno
sapiente. Qui ci rimanda ad una delle più note novelle di
Pirandello, avvertendoci subito -tramite la distorsione
linguistica in salsa pop-
di un uso manipolatorio che ne verrà fatto, rifuggendo da ogni
eventuale scrupolo di fedeltà. Lo spettatore più esigente che
volesse informarsi meglio, trova allora nelle note di regia
predisposte con mano energica da Elena Gigliotti la chiave per la
genesi di questo impasto: la vicenda pirandelliana è poco più di un
pretesto, e funge più che altro come metafora iniziatica per
sospingere una storia diversa e personale, quella della nonna della
regista e attrice, secondo uno schema di sovrapposizioni tra arte e
vita non completamente nuovo in sé.
Ma
ciò che accade solo talvolta in teatro è che anche preannunciando
tutto, si riesce a non raccontare nulla di uno spettacolo, il quale
non è una esposizione lineare di argomenti ma un concerto di visioni
ed associazioni sensoriali, in cui la tanto amata sorpresa sta ben
poco in ciò che si racconta, e molto più nel come si manifesta.
Ecco perché non sempre si assiste ad uno spettacolo ma solo ad una
buona prova di tecnica, di mestiere, di scuola o di esperienza … ma
non uno spettacolo, che per farsi corpo deve saper coagulare
prima di tutto un proprio linguaggio, unico ed inedito eppure in
grado di parlare -o meglio, di risuonare- in ciascheduno.
C'è
una forma speciale di novità che non si limita a sorprendere,
entusiasmare o scuotere, ma che risveglia una sensazione remota,
sepolta, che si era sempre posseduta eppure smarrita o dimenticata.
E' quanto si può chiamare “verità” o anche “arte” se si
vuole, a patto di mantenerla distinta anche terminologicamente dagli
ambiti deteriori della “schiettezza” e del “mestiere”. Forse
un termine appropriato non esiste ancora, ma quel che è certo è che
si tratta di una zona del senso che l'essere umano raggiunge
visibilmente solo nell'arte, e che l'arte insegna alla vita.
“Ciaula
to the Moon” è un valido esempio di questo fenomeno, dove la
componente biografica non è un prestito della vita all'arte, ma uno
strumento artistico che il lavoro di scena restituisce alle vite
degli spettatori come memoria ancestrale, collettiva quanto
personale. Chi ha già visto qualche passaggio dell'attività degli
nO sa che non si tratta di un
caso. In scena Elena Gigliotti taglia e scuote l'aria con la sua
presenza almodovariana, giocando ora antagonisticamente, ora in
chiave complice con un brillantissimo Giuseppe Amato, chiamato in più
di una occasione a reggere da solo la scena. Ogni tanto negli assoli
c'è qualche inevitabile ricorso al mestiere o al materiale di
laboratorio, che però ritrova una sua funzione nell'economia
complessiva dello spettacolo.
La
scena in effetti dimostra progressivamente la sua casualità o
disordine solo apparenti; in realtà si tratta di una sorta di pedana
multifunzionale, che ospita elementi meramente scenici (come una
riedizione delle luci di ribalta) più delle vere e proprie “macchine
attoriche”, dotate di valore drammaturgico specifico, tramite cui i
personaggi raggiungono una identità piena. E' questo il caso del
microfono posto in proscenio e soprattutto della scala posta sul
fondo dall'altro lato della scena, in una opposizione diametrale
significativa. Questo piano simbolico viene popolato da segni forti e
complementari, su cui primeggia la dialettica tra la madre e il
figlio. Gli assoli dell'uno si rivelano specchio dell'assenza
momentanea di lei, ed allora il suo rientro in scena si colora di
accenti ritualistici, proiettando la figura materna su di una
dimensione iconica. Diviene forse sostanza immaginaria ed ossessiva
di un ingenuo cronico, di un diverso come il Ciaula di Pirandello. La
cifra stilistica degli nO
si riconosce nel saper contenere tutto quanto vi è di potenzialmente
concettuale all'interno di un evento che è prima di tutto sensoriale
(sonorità, visività) e scenico (tempo, ritmo, pausa, accelerazione,
movimento, cambi di luce), immediatamente fruibile. C'è spazio per
il riso ed il frastuono, la musica e le coreografie (qui firmate da
Claudia Monti di Arbalete), per le bambole e persino per il “divino”
televisore. Questo uso luminoso del domestico, dell'ordinario, del
prosaico ricorda l'oggetto degradato
di Kantor, mentre la ridondanza barocca della sonorità meridionale
(ormai assunta a vero e proprio cliché
di tanto, troppo teatro indipendente, specie siciliano) appare
differente nei lavori degli nO,
per gli equilibri di uno spettacolo che contiene sempre una
moltitudine di livelli, componenti e idee.
In
“Ciaula to the Moon”, l'intrico sguaiato e disarmante di
racconti, visioni e variazioni, vede la figura della madre che si
trasforma e si moltiplica, torna ragazza, poi bambina, ma più che
ringiovanire si assottiglia fino a perdere corpo. Fino a non essere
altro che corpo quiggiù, indistinto tra oggetti e balocchi.
Poi,
in alto, improvvisamente, la luna. Dove era sempre stata.
Paolo
Verlengia
Arbalete/nO
(Dance first. Think Later)
CIAULA
TO THE MOON, di/con E. Gigliotti e con G. Amato
28
Gannaio 2016, FLORIAN METATEATRO, Pescara
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