“VECCHI
TEMPI”: L'ENIGMA E' SERVITO
Pippo
di Marca apre la sua trilogia pinteriana scegliendo uno dei testi più
chiaroscurali del Nobel inglese
Quando
Harold Pinter esordì come drammaturgo era il lontano 1957. Non era
esattamente un novellino: aveva quasi ventisette anni e il teatro lo
conosceva già bene in qualità di attore di repertorio. Qualche
decennio più tardi, nel 2005, avrebbe ricevuto il premio Nobel per
la Letteratura a 75 anni, già minato dalla malattia che lo
stroncherà definitivamente tre anni più tardi. Quelle che per i
critici inglesi degli anni '50 e '60 erano delle commedie vuote,
fatte di dialoghi insipidi dove non accadeva nulla, per l'accademia
svedese sono testi in cui si svela il baratro nascosto dietro le
chiacchiere di tutti i giorni.
Oggi
Pippo di Marca, decano dell'avanguardia italiana, dopo una vita spesa
nella ricerca teatrale a più livelli (dal linguaggio scenico al
lavoro testuale), decide di misurarsi con Pinter, riattivando
antichi quesiti: abbiamo a che fare con un autore semplicemente
provocatorio, con un innovatore criptico ed “aristocratico” che
snobba unitamente il consenso di pubblico e di critica? Oppure siamo
al cospetto di un classico, uno degli ultimi padri del dramma
contemporaneo, prima della fase delle necessarie decostruzioni
post-drammatiche? Per dirla in breve, Pinter è -almeno oggi- un
esponente dei “vecchi tempi”? Il regista odierno è chiamato a
rielaborare il testo? In che misura ed in che modo?
E
sì perché la vicenda di Pinter è leggermente più complicata,
giocata su incastri temporali quasi rocamboleschi: riesce comunque ad
affermarsi a Londra grazie al mitico Royal Court, un teatro nato
-sotto nuova gestione- un anno prima del suo debutto, nel 1956, con
il chiaro intento di appoggiare i nuovi autori, andando contro i
dettami della tradizione ed i giudizi della critica ufficiale. Venne
così la stagione dei giovani autori inglesi di impegno sociale e
politico (i celeberrimi angry young man, gli “arrabbiati”),
ma rispetto a questi Pinter risultò sempre un caso a parte, un “cane
sciolto”, portatore di uno stile opaco, tanto da raffreddare spesso
gli animi anche presso il nuovo pubblico, che in quegli anni aveva
imparato a preferire lo scontro aperto, la denuncia, l'urlo, il
linguaggio esplicito scevro da zavorre intellettualistiche. Pinter
appariva già vecchio, disinteressato dalla lotta politica e più in
linea secondo taluni con la generazione precedente che aveva varcato
la soglia del Teatro dell'Assurdo, di affiliazione più apertamente
continentale che non solidamente britannica. Ma di nuovo, i conti
stentano a tornare: la scrittura di Pinter non deforma mai la realtà
oltre la misura di una mediezza che non libera il pubblico da una
relazione di ambigua mimesi con la rappresentazione. Neanche la
grande famiglia degli “assurdisti” può accogliere Pinter con
risolutezza.
Di
Marca sembra voler indulgere con gusto nell'enigma più che aiutarci
a scioglierlo. Vecchi Tempi è forse il dramma più ambiguo
della produzione pinteriana, collocato nella fase centrale e matura,
lontana dagli sperimentalismi più manifesti dei primi drammi quanto
dall'assertività forzata degli ultimi. L'ambiguità è davvero la
chiave stilistica della pièce, attorno a cui si sviluppano i quesiti
più concettuali: l'imperscrutabilità della realtà e dell'identità
individuale, l'arbitrarietà della memoria.
Il
piano di regia messo a punto per questo allestimento centra
effettivamente il cuore da cui il dramma sprigiona la sua piena
ricchezza. Una ricchezza per l'appunto fatta di accenni, allusioni,
avvicinamenti e fughe repentine, tutte costantemente centrifughe. La
scena realizzata dal Laboratorio Florian Metateatro ci mette subito
davanti il proverbiale interno pinteriano, dove la domesticità non è
minimamente sinonimo di intimità, comodità, distensione. Il rigore
dei bianchi e dei neri rende bene la tensione sottile della
situazione scenica, ove l'insieme ricorda una rigida scacchiera; al
suo interno, postazioni e movimenti degli attori sono simili a quelle
di abili giocatori o di pedine eterodirette a seconda dei singoli
frangenti.
Eppure,
manca ogni simbolismo imposto dall'esterno sull'originale: le
indicazioni del testo sono rispettate pressoché alla lettera sin
nelle didascalie con cui Pinter fissa una regia interna, pre-scenica.
Anzi, le didascalie di apertura e chiusura del dramma si trasformano
in vere e proprie battute affidate alla voce fuori campo del regista,
unico ed ultimo appiglio del pubblico per tentare di sciogliere un
enigma che dalla scena sembra proiettarsi sulla condizione umana
tutta.
Di
Marca sveste i panni demiurgici che sono pur leciti al ruolo del
regista e che diventano doverosi in sede di sperimentazione, di
ricerca, di rilettura,
come testimonia l'intera avventura teatrale del fondatore del
Metateatro. In ciò è già forse presente una tacita risposta al
quesito di partenza: Pinter è un classico e va trattato come tale,
cercando spazio soltanto tra le maglie di un testo dagli equilibri
ferrei, ove nulla è casuale né alterabile. Ciò nondimeno, lo
spettacolo è la migliore dimostrazione delle possibilità di gioco
che restano ad attori e regista all'interno di un campo dai confini
così netti: Fabrizio Croci, Francesca Fava ed Anna Paola Vellaccio
si muovono lungo sentieri recitativi individuali, diversi per
ciascuno da quello dei partner di scena, riuscendo a sollevare dai
diversi passaggi del testo colorazioni molteplici e non scontate. I
dialoghi appaiono allora quasi il tentativo meta-teatrale di
instaurare una soluzione non afasica o non solo monologante della
parola. La regia di Di Marca intuisce tutta la fertilità di questa
consistenza nebulosa, andando ad isolare anche fisicamente l'azione
degli attori, pur conservando intatta la compostezza del living-room
pinteriano ed affidandosi massicciamente alla luce per ridisegnare
nello spazio zone di solitudine, di istrionismo, di voyerismo e di
prossimità rara, impacciata quanto illusoria. In questo linguaggio
di cenni e di attimi, il buio interviene sontuosamente a sezionare i
tempi di un confronto impotente, non solo con l'altro e non solo con
il passato, su di un terreno squisitamente cognitivo.
Paolo
Verlengia
“VECCHI
TEMPI” di Harold Pinter
Regia
Pippo Di Marca, con Fabrizio Croci, Francesca Fava, Anna Paola
Vellaccio
4-5
Febbraio 2016 – FLORIAN ESPACE, Pescara
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