SUPERFICIE E PROFONDITA' NEL POP UNICO DEGLI nO
La novità esplosiva di "Trenofermo" oltre i limiti dell'arte snob
La novità esplosiva di "Trenofermo" oltre i limiti dell'arte snob
Contemporaneità. E' questa la cifra identitaria degli nO (Dance first, Think Later), folgorante formazione meridionale premiata a Scenario 2013 con una segnalazione speciale per “Trenofermo a-Katzelmacher”. Dieci performer di provenienza diversa, compattati in gruppo -nella maggior parte dei casi- dalla frequenza comune della Scuola di Recitazione presso il Teatro Stabile di Genova. La giovane età -si varia dalla classe ‘82 dei più anziani alla classe ‘87 del regista, per una formazione nata nel 2010- è inversamente proporzionale alla ricchezza ed intensità di esperienze artistiche accumulate dai singoli, spaziando con agio dal teatro al cinema alla fiction televisiva.
Ma veniamo subito alla cronaca dello spettacolo: mentre il pubblico cerca
ancora una sistemazione stabile in sala, gli attori sono già in
scena, rivelati e svelati senza filtri dall’illuminazione generale,
che li confonde nella commistione iniziale ad una generalità di
presenze, tra spettatori, tecnici ed organizzatori. Ma l’azione è
già in atto, il linguaggio già ribolle nel farsi della scrittura di
scena, le tipicità dei personaggi creano già micro-conflitti. Gli
attori improvvisano movimenti da soli o con i partner di scena, senza
con ciò chiudersi dentro lo schermo dell’interpretazione:
sbirciano in platea, con allocuzioni intermittenti ma dirette ai
singoli spettatori, sghignazzano, canticchiano, si atteggiano da
bulli, scattano foto con il telefono. Dietro la scenografia vivente
creata dagli attori, si notano gli elementi materiali della scena: è
prepotente la presenza di un motorino sul lato sinistro, stagliata su
di una generalità anonima di oggetti di risulta che si accumula sul
fondo, tra lamiere, insegne pubblicitarie, lattine di birra, catini e
sedie di plastica reclinate assieme ad uno sbilenco ombrellone da spiaggia. Al
centro della scena, a terra, nel tramestio disordinato degli attori,
trovano posto con inusitata cura nove caschi da motociclista.
Immediatamente il buio: i
caschi rivelano la presenza di led che irrorano una luce
sintetica azzurrina; la scena si veste di una raffinatezza pop.
Quasi marziale, la voce tonante di uno degli attori ritma tre tempi,
al termine dei quali il gruppo risponde all’unisono e compatto, a
metà tra branco selvaggio e gang di strada,
richiamando ora il rituale haka dei Maori ora la prosaica
coreografia di ultras da stadio. L’effetto strobo che si
sovrappone, favorisce questa suggestione polisemica,
sintetizzando nell’azione una coralità di istantanee
combinatorie. Così, nella percezione dello spettatore subentrano interferenze eterogenee: il traffico
caotico suburbano, la velocità frugale degli autogrill, il pogo dei
concerti e dei disco-club. La sequenza è a tutti gli effetti
coreografica, alternando momenti di ritmo intenso ad altri
rallentati e sincopati, componendo nel complesso una pantomima seducente pur fatta
di gesti volgari e di sfida, ostentazione anatomica, moti di
aggressività, gravità corporale, terrenalità. In una parola: pop,
in quanto a priorità del linguaggio visuale ed iconico, che non
esaurisce né esclude una prolificità lirica, capace di
riscoprire il seme dell’estetica nei terreni marginalizzati
dall’arte ufficiale, colta ed elitaria.
La rivendicazione del
presente -al lordo di tutte le
criticità- è proprio ciò che caratterizza sul piano tematico la
performance degli nO: «E’ il momento giusto / il momento
nostro […] Ringraziamo: la crisi / che ha creato noi. Noi / per la
nostra scelta / il sud che ci ha fatti. Accussì.»
“Trenofermo a-Katzelmacher” detiene capacità di analisi al pari di lavori d’impegno sociale e civile, senza dover necessariamente passare attraverso la rivendicazione di un engagement titolare. Anzi, la profondità critica di un lavoro come questo rende centralità protagonistica non al documento dell'attuale ma alla sua poetica, in un magma vitale che ospita sia la denuncia del negativo che il sentimento di appartenenza, ovvero l’unico "minerale" disponibile per la costruzione di speranza e di alternativa. In una parola: talento (puro, se è lecito aggiungere un aggettivo).
“Trenofermo a-Katzelmacher” detiene capacità di analisi al pari di lavori d’impegno sociale e civile, senza dover necessariamente passare attraverso la rivendicazione di un engagement titolare. Anzi, la profondità critica di un lavoro come questo rende centralità protagonistica non al documento dell'attuale ma alla sua poetica, in un magma vitale che ospita sia la denuncia del negativo che il sentimento di appartenenza, ovvero l’unico "minerale" disponibile per la costruzione di speranza e di alternativa. In una parola: talento (puro, se è lecito aggiungere un aggettivo).
Sul piano formale ed
estetico, l’ingrediente portante della performance è dato dalla
sonorità invadente di una meridionaltà spuria, che miscela accenti
e prosodie irregolari dalle periferie campane, sicule e calabresi,
spettacolarizzandole nella forma di una phoné musicale e
principalmente significante. Parola che rapisce, persuade e di nuovo
mostra la sua forza ispiratrice ad onta della banalità del sermo
quotidiano o del lessico giovanile che fermenta nei non luoghi
suburbani. In questo senso, verrebbe da definire dialettica più che
dialettologica la lingua degli nO.
La potenza visuale della
sequenza coreografica, lascia improvvisamente spazio ad un quadro di
sospensione lenta, di attesa inane, mentre il sonoro tipico
dell’azienda ferroviaria sciorina una giaculatoria laica fatta di toponimi
inusitati, tracciata dai treni regionali lungo le rotte del Sud più
profondo. Il vuoto viene riempito fatalmente di piccole oscenità e
mutue umiliazioni gratuite, di aggressività immotivata che parte
autonomamente dagli arti, come nella geniale sfida a calcio balilla
tra due bulli, in cui il biliardino scassato e privo di palline
diventa una sorta di protesi limitante, in un braccio di ferro
decervellante senza vincitori possibili. Ma nuovamente il vuoto si
ribalta e torna ad essere forma madre, materiale significante,
combustibile d’energia: la musicalità verbale incontra la musica,
il corpo incolto asseconda di nuovo il ritmo, crea la danza dalle
viscere della terra che calpesta.
Prima danzare, solo poi
pensare: è questo l’ordine naturale. Così d’altronde recita il
messaggio criptato che si nasconde dietro il nome della formazione
(nO, quali iniziali di natural order, in omaggio ad un
passaggio di Waiting for Godot, relativo al bizzarro
comportamento corporeo e verbale del personaggio di Lucky). Si tratta in sintesi del
messaggio dissacrante rivolto dagli nO all’establishment
culturale, accademico ed intellettuale, a tutte quelle forme di
applicazione dell’intelligenza e della creatività che necessitano
strutturalmente la cerebralizzazione, indi la lamentazione e la
protesta deresponsabilizzante per attivarsi
produttivamente. Ecco perché il trash stilizzato di
“Trenofermo a-Katzelmacher” non si limita a produrre
divertimento o dissacrazione, abbattendo tutte le categorie di
seduzione estetica e critica sociale, e celebrando soprattutto il sole
nuovo dell’oggi, l’inizio rituale di una nuova era che è già in
atto. Non si tratta di semplice abilità o di esuberanza giovanile
che dovrà farsi lungo ben altre sfide alla ricerca di un metro più
maturo o più pettinato: la rarità di un messaggio artistico ispirato
alla poetica del presente ha -quanto meno nella
tradizione italiana- il valore salvifico di una cellula staminale.
Almeno quando, come nel caso in specie, il risultato presenta tutti i
crismi della compiutezza in termini artistici e scenici.
Gli attori scimmiottano
il loro talento di scuola in una serie di fermo immagine da autoscatto inebetito,
genuflessi al nume tutelare dell’onnipresente vasetto di gel per capelli dal colore blu
elettrico; al pari, la spettacolarità estetizzante delle
coreografie di gruppo riesce ad alimentarsi di movimenti semplici,
quasi ordinari e comuni. Il totem post-moderno rappresentato dal
motorino si attiva finalmente sull’angolo della scena, mostrando
una ghirlanda di lucine a festa irresistibilmente pacchiane, mentre
l’asta di un microfono trasforma il ciclomotore in un pulpito
presso il quale i singoli personaggi si alternano velocemente in
assoli, tra gli estremi diametrali di un rap reso
incandescente dalla sonorità siculo-calabrese e la scabra
comunicazione privata da messaggeria vocale, per chiudersi infine con
un proverbiale inno neo-melodico in chiave rigorosamente partenopea.
La sfera perfetta di una comunicazione
tutta interna al microcosmo meridionale viene infranta
improvvisamente dall’arrivo di uno straniero, secondo l’escamotage
ormai classico dell’entrata in scena dalla platea, che però qui
ripristina il suo senso drammaturgico specifico. Il "neofita" si
esprime timidamente in lingua straniera, accompagnato dal suono caldo di un
organetto a mano che pende dal suo collo, riuscendo a guadagnare solo
l’irrisione ed il cannibalismo istintuale del branco annoiato,
ricompattato dalla sorpresa del suo arrivo. Eppure, in
un irrinunciabile coup de théàtre, il pulpito motorizzato
concede anche a lui un momento di illuminazione, in cui il suo
discorso precario si veste di una lingua italiana impeccabile e
finanche di marca letteraria, che la Babele dialettofona precedente
rende ora quasi straniera ed esotica all’ascolto. E’ lui il
katzelmacher di cui si vociferava in paese tra uno sbadiglio ed
una baruffa, ovvero l’immigrato, l’intruso, il contaminatore di
sangue e di razza, che il nome astruso maccheronicamente rimasticato
amplifica con distorsione straniante, sprezzante e minacciosa.
Tecnicamente il termine funge da citazione, visto che il copione
della performance si basa sull’impianto del dramma Katzelmacher
di Fassbinder (1968), basato sulle vicende aspre che attendono un
immigrato del sud europeo in Germania; in ogni caso l’ipotesto
rimane un mero punto di partenza per un lavoro autonomo modellato
fortemente dall’esercizio in scena e che lacera continuamente il
copione progressivamente fissato.
Il rapporto dialettico
tra testo e scena per l’attribuzione di paternità su di uno
spettacolo è questione annosa; in tal senso, il lavoro di
riscrittura degli nO ribadisce in maniera quanto mai
persuasiva come la messinscena sia sempre un’opera di
sovrascrittura scenica, anche laddove il testo venga maneggiato con
cura filologica. Ciò detto, sorprende come un lavoro quale
“Trenofermo a-Katzelmacher”, che mostra una profonda
personalità registica, sia il risultato di una co-regia dai meccanismi quasi osmotici
(Dario Aita, titolarmente regista e dramaturg oltre che
attore, coadiuvato a più livelli da Elena Gigliotti, titolarmente
autrice delle coreografie, oltre che attrice) aperta al contributo
collettivo costante nelle sessioni di prova sotto forma di
improvvisazione attorica.
Inutile chiedere spiegazioni a loro: con buona probabilità ci risponderebbero candidamente che si tratta di un “ordine naturale”. Quel che appare più chiaramente è che –qualunque sia la formula o il dosaggio segreto- gli nO danno l’impressione di inventare una categoria teatrale tutta nuova, tutta odierna e sovra-genere, come avviene in picchi isolati nella storia del teatro quando un’epoca riesce a coagulare spontaneamente nel suo stampo specifico. Senza ricorso alla citazione, alla parodia o alla riscrittura effettiva di modelli precedenti, la lingua scenica degli nO sa leggere e restituire potenza epica alla dimensione quotidiana ed ordinaria, guardandola in controluce, in un atto di irraggiamento che è possibile solo a chi accetta la superficie.
Inutile chiedere spiegazioni a loro: con buona probabilità ci risponderebbero candidamente che si tratta di un “ordine naturale”. Quel che appare più chiaramente è che –qualunque sia la formula o il dosaggio segreto- gli nO danno l’impressione di inventare una categoria teatrale tutta nuova, tutta odierna e sovra-genere, come avviene in picchi isolati nella storia del teatro quando un’epoca riesce a coagulare spontaneamente nel suo stampo specifico. Senza ricorso alla citazione, alla parodia o alla riscrittura effettiva di modelli precedenti, la lingua scenica degli nO sa leggere e restituire potenza epica alla dimensione quotidiana ed ordinaria, guardandola in controluce, in un atto di irraggiamento che è possibile solo a chi accetta la superficie.
Paolo Verlengia
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