TRA VOCE E AZIONE: INTERVISTA A
CHIARA GUIDI (Socìetas Raffaello Sanzio)
a cura di Paolo
Verlengia
Abbiamo incontrato
Chiara Guidi, fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio e regista
impegnata da anni in un lavoro di ricerca, focalizzato in maniera
specifica sulle dinamiche legate alla voce ad alla sonorità.
L'intervista che segue è stata realizzata nelle ore immediatamente
precedenti alla messinscena de “La Cattedrale Sommersa” presso lo
Spazio Matta di Pescara (30/07/2016). Emerge un discorso profondo su
tematiche di assoluto interesse, come il ruolo della parola e
dell'esperienza, la funzione del teatro e la percezione della realtà,
il rapporto tra oralità e scrittura.
§
Il tuo ultimo
lavoro – “La Cattedrale Sommersa” – è caratterizzato da una
ricerca sul suono e sulla voce, il che a sua volta non rappresenta un
esperimento estemporaneo, bensì è qualcosa che viene da lontano.
Possiamo dire che questa ricerca rappresenti l'interesse principale
per te e per il tuo teatro?
Direi di sì. Per poter
interrogare il teatro e lo statuto della sua tecnica mi sono posta in
una posizione di osservazione. La paragonerei ad un angolo, al
vertice da cui si dipartono due linee prospettiche: una è l'infanzia
e l'altra è la voce. Infatti alterno con frequenza lavori per
bambini e lavori basati prettamente sulla voce, o lavori di
messinscena legati fortemente con la struttura della musica.
Se parliamo di voce,
parliamo infatti di una presenza sonora: la voce suona. Se parliamo
di infanzia, parliamo di una condizione umana in cui è centrale il
linguaggio e la sua origine.
Uso volutamente la parola
infanzia e non la parola bambino, perché l'infante è
colui che vive prima del linguaggio, vive in un ambito di
comunicazione che è sicuramente più legato all'articolazione sonora
-alla meccanica che governa la voce e l'apparato fonatorio- che non
al significato.
La voce e l'infanzia
trovano un punto di connessione fortissima nell'origine del
linguaggio e questo è un tema che mi interessa molto.
Per poter vedere la voce,
per poter ovvero mettere l'accento in maniera specifica sulla voce,
in qualche modo è necessario sospendere il significato delle parole.
Allo stesso modo, per poter intendere cosa significhi essere in una
fase dell'esistenza che è collocata prima del linguaggio, occorre
giocare, che è proprio la parola specifica del teatro. E' un
gioco dove colui che guarda ha la responsabilità -di fronte
all'infanzia ed alla voce- di mettere in campo un'osservazione, un
ascolto che è un vedere, che ha come limite ciò che appare, nel
senso che va al di là di ciò che si sente e che si vede.
E' quando senti qualcosa
che non capisci, eppure senti che lì dentro c'è qualcosa che ti
chiama. Io penso che questo sia il tipo di teatro che mi piace, che
mi interessa. In fondo, con il lavoro teatrale che svolgo, non faccio
altro che interrogare il teatro e per interrogarlo mi pongo in questa
condizione che ha sempre come punti di riferimento l'infanzia e la
voce.
Poi l'infanzia diventa
alla fine una figura ideale di pubblico (non prettamente un pubblico
di bambini) e la voce diventa un'idea di drammaturgia, che ha come
chiave di azione lo statuto della musica.
In una tua nota, in
cui descrivi il lavoro che ruota attorno a “La Cattedrale
Sommersa”, utilizzi il termine di “azione sonora” e metti in
rilievo il nesso tra sonorità e azione che tu persegui. Puoi spiegarci
questo passaggio in cui la parola si fa azione?
Solo l'azione genera la
tragedia. Il desiderio di conoscere è un'azione. Prendiamo l'esempio
di Edipo: lui vuole sapere e per questo mette in campo un'azione di
conoscenza. Senza un'azione non si scatena la tragedia, e più in
generale senza un'azione non c'è teatro.
La parola “drammaturgia”
vuol dire “fare il fare”. Fare implica sempre un'azione, fare
vuol dire compiere un'azione. Ma l'azione non è solo ciò che appaga
gli occhi e la ragione, ovvero la trama. Un'azione è anche qualcosa
che invita ad andare oltre ciò che vedi, oppure a prendere
consapevolezza che ciò che vedi ha una sua complessità. Per
complessità non intendo alludere a nient'altro che non al
significato stretto della parola, ovvero intendo dire che ciò che
vediamo è complesso, non qualcosa di mistico, come vedere l'anima
delle cose o altro.
Ora, la complessità
esige uno sguardo poliedrico: non si può osservare una cosa
complessa da un unico punto di vista. E per trovare la capacità di
osservare l'azione teatrale da più punti di vista dobbiamo
sganciarci dal meccanismo della consolazione apportata dalla trama.
La trama imprime all'azione un cammino lineare, ma il cammino
diventa realmente interessante quando si fa errante: sa bene
dove andare, ma non segue una linea precisa. Sperimenta, si muove,
gira da un lato, poi dall'altro, poi torna indietro.
Questa erranza è
garanzia di esperienza. Attraverso
la voce ed il suono, il teatro non è più succube del significato
delle parole. Allo stesso modo è importante l'infanzia, come
categoria di pubblico capace di sospendere l'uso della ragione,
capace di immaginare, il che vuol dire saper vedere ciò che c'è ma
che non appare immediatamente, oppure saper vedere la complessità di
una cosa.
In questo modo, noi
abbiamo un'idea di teatro che appunto mette in moto in maniera totale
(dal palco alla platea) un'esperienza, ma in quanto tale
un'esperienza non dà mai la certezza che sia esatta. Ogni esperienza
ha una buona probabilità di fallire. E' questa la cosa interessante:
un teatro che mette l'accento, attraverso la voce e l'infanzia, sul
tentare ciò che è in potenza, un teatro che mette l'accento sul
processo di lavoro e non tanto sull'oggetto da vendere.
Puoi descriverci i
meccanismi interni che regolano “La Cattedrale Sommersa”, nelle
giornate di lavoro che precedono la messinscena e nella messinscena
stessa ?
Si tratta innanzi tutto
di un incontro: anche per descrivere quest'ultima esperienza qui a
Pescara, parlerei principalmente di un incontro tra quattordici
persone, sviluppato lungo sei giornate dedicate all'esercizio. Ogni
partecipante ha degli elementi sonori, legati alla voce, delle
“figure”, che sono situazioni più complesse, come una sorta di
melodia scritta sul pentagramma, ma che non ha nulla a che vedere col
canto, perché è tutto recitato. Ognuno ha poi un “punto”,
ovvero se io imposto la mia figura e faccio un'azione con la voce,
può arrivare un altro attore a decidere che l'azione che tu hai
messo in campo si deve fermare, la blocca. Ogni attore ha delle
“domande” da porre e dei “monologhi”, dei suoni collettivi da
generare, che a loro volta generano ambienti, quindi ciascuno ha un
tot di situazione, come una serie di carte da giocare, o -se
vogliamo- di cartucce da usare. E nell'arco di venti minuti si pone
il problema di come comporre collettivamente un amalgama sonoro,
ovvero una struttura sonora da sollevare.
E qui si inserisce
il romanzo “Il Guaritore Galattico” di Philip Dick, che parla di
una antica cattedrale sommersa sotto le acque e di uno strano
scienziato, di nome Glimmung, che la vuole far riemergere.
E' una situazione
perfetta come processo di lavoro, ma non solo. La trama del romanzo
di Dick “Il Guaritore Galattico” è proprio il tentativo che
Glimmung fa di chiamare degli esperti provenienti da tutte le regioni
della terra. Li ingloba ed insieme sollevano la cattedrale sommersa
per riportarla alla vita ed all'esistenza. Quindi il loro compito è
tentare di sollevare la cattedrale nell'arco di tre tentativi, che in
questo caso non è una cattedrale ma una massa sonora.
I tentativi falliranno?
Può darsi.
“La Cattedrale
Sommersa” non può definirsi uno spettacolo tout court. Tu quale
definizione utilizzeresti?
Per me si tratta di un
concerto. Magari un concerto drammatico, non formalmente musicale. Ma
anche qui bisogna precisare: se si mette l'accento sul processo di
lavoro, diventa difficile la collocazione dell'oggetto finale, perché
è una forma aperta, che nel caso de “La Cattedrale Sommersa”
dura venti minuti e si ripete tre volte nel corso della serata,
cambiando ogni volta.
Le tre prove che
andranno in scena stasera, non saranno dunque le tre repliche di uno
stesso spettacolo?
No. Sono tre
improvvisazioni di composizione e montaggio, con un idea di teatro
che interroga la musica.
Quindi uno
spettatore che si reca a vedere “La Cattedrale Sommersa” come
deve porsi?
Lo spettatore è invitato
a sospendere il modo abituale di comprendere. E' invitato a non
apporre una resistenza di fronte a ciò a cui assisterà, dicendo
“devo capire”.
Sarebbe come pretendere
di estrapolare la trama di una musica che mi ha commosso. Perché mi
ha fatto piangere una data musica? Oppure, perché mi ha trasmesso
pace? Se uno cerca questo nella musica non riesce a trovarlo. Io
posso dire che ho ascoltato una bella musica, ma se tu mi chiedi di
raccontartela, questo è impossibile. Potrò solo dirti di ascoltarla
a tua volta.
La musica appartiene ad
una cultura orale, nel senso che c'è poco da dire, occorre fare.
Ecco, il pubblico è invitato a mettere in campo una capacità di
immaginazione. E' un po' quello che dice Leonardo ai suoi studenti:
“sappiate vedere, nelle muffe e nelle macchie, lotte di cavalli e
cavalieri.” Io credo che questa sia la definizione migliore per
questo lavoro.
E' chiaro che una trama
di fondo c'è e si capisce: c'è uno che vuole sollevare dal basso
una cattedrale, ma poi se mi interessa il romanzo di Dick, me lo vado
a comperare. Io non posso restituire in scena il romanzo di Dick.
Però di fatto il gioco è
molto preciso. “La Cattedrale Sommersa” è un'improvvisazione
sonora creata a partire dalle parole di Dick. La trama viene
inglobata nel nostro fare, rendendola azione.
Ecco perché ribadisco la
parola azione. Perché non è una concettualizzazione, non è
una trama spiegata. Non ce n'è bisogno, perché noi quella trama la
facciamo, la incarniamo.
Qual è stata la
genesi di questo lavoro? E' il romanzo di Dick che ti ha dato l'idea
per sviluppare un lavoro laboratoriale, oppure si è trattato di
un'idea indipendente che ha trovato nel romanzo di Dick un semplice
strumento di lavoro?
Tutte e due le cose
insieme, per una di quelle strane alchimie che capitano nella vita,
ma soprattutto credo che nasca dal desiderio di mettere al fuoco
delle bolle compositive molto precise, affidarle a delle persone e
vedere come la sensibilità ed il gusto estetico di queste persone,
in maniera collettiva, riesce a ricombinarle. Quello che è
interessante per me è vedere come i partecipanti riescono a
stupirsi delle loro stesse immagini proponendole in un ambito
collettivo. Non si tratta di eseguire in pubblico delle parole e dei
gesti provati e memorizzati in precedenza; si tratta bensì di
reinventare una terza forma.
L'esito de “La
Cattedrale Sommersa” cambia anche a seconda del giorno e del luogo
in cui va in scena, dato che la performance viene realizzata da un
gruppo di attori ogni volta diverso, formato da persone del luogo che
decidono di partecipare a questa sessione di lavoro?
Questo può influire
naturalmente, ma al di là di questo, se mi accorgo che nel gruppo
con cui mi trovo a lavorare non ci sono le voci adatte, io stessa
cambio le immagini che avevo pensato in origine. Questo è
necessario, anche perché non ho possibilità di fare un lavoro
prolungato sull'abilità attoriale.
Questo accade
perché ogni volta, il lavoro si concentra in pochi giorni precedenti
alla messinscena?
Non solo per questo. In
generale, io non so se sia possibile insegnare a recitare. La
recitazione comporta qualcosa di innato. Certo, può sussistere un
metodo di lavoro e questo lo si può insegnare. Io ho stessa ho
scritto il mio metodo di lavoro, la Tecnica Molecolare della Voce.
Credo che esista una
tecnica per dare dei suggerimenti ai fini della recitazione, per
smascherare dei cliché, dei luoghi comuni, delle sonorità
facili e consolatorie. Però poi credo che ciascuno di noi debba
trovare quell'equilibrio tra la forza e la dolcezza che non è
possibile insegnare.
E' come reggersi in
equilibrio: io ti posso insegnare un punto, un altro, ti posso
predisporre l'asse, ma non ti posso trasferire il concetto di
equilibrio. L'equilibrio è qualcosa che devi trovare tu e credo che
l'attore debba fare un lavoro di funambolismo per poter riuscire, con
la propria voce, con la propria tecnica, la propria ricerca, a dire
ciò che il testo non dice in maniera evidente.
Vorrei approfondire
con te un discorso fondamentale sul teatro, quale arte sospesa tra le
dimensioni dell'oralità e della scrittura (il testo). In più di una
occasione, tu hai utilizzato il romanzo come strumento testuale, come
a dire che la drammaturgia, ovvero una tipologia di testo
specificatamente creata per il palcoscenico, non ti è poi così
necessaria per fare teatro.
Il teatro viene da una
cultura orale e conserva questa sua genesi. Poi è venuto il testo.
Io non posso salire sul palcoscenico perché devo dire le parole di
un testo. Il teatro non è questo: non è dire le parole di un testo.
Quello è l'ambito della letteratura. Tuttavia, anche la lettura
drammatica può funzionare se comunque quel testo non è l'oggetto
principale.
In poche parole, occorre
dimenticare per trovare. Occorre dimenticare il testo, una volta che
l'hai conosciuto perfettamente. Perché l'arte ti chiede non di
rendere omaggio alla letteratura, ma di fare un salto nel vuoto nella
tecnica del teatro.
Il pubblico quanto
è importante in questa visione di teatro?
Fondamentale.
A differenza del
testo?
In realtà, non c'è una
gerarchia. Se c'è questo approccio aperto, basato su di una totale
capacità di porsi a 360 gradi di fronte all'oggetto che stai
cercando, potrebbero diventare all'improvviso importanti la parola e
il significato. Non mi devo precludere nessuna via, deve vigere
assolutamente il principio di contraddizione. Però nel caso
de “La Cattedrale Sommersa”, come in altri miei spettacoli, si
tratta di un lavoro sul suono della voce, per cui se vieni per capire
la trama del romanzo non riesci, perché è un lavoro musicale.
In questo periodo io sto
leggendo Dante insieme ad un violoncellista, Francesco Guerri.
Abbiamo deciso di fare esercizio settimanale sulle parole di Dante e
quando siamo pronti, su richiesta, facciamo lo spettacolo. Con
questo, voglio dire che le parole sono fondamentali. Allo stesso
tempo, è relativo il discorso sul significato delle parole,
però è importate come la voce si appoggia sul significato e cosa
scopre poggiandosi su quelle esatte parole.
Nel tuo approccio
al lavoro teatrale, il fine non è quello di produrre degli
spettacoli da vendere o da mostrare, quanto più raggiungere degli
obiettivi in termini di conoscenza, e talvolta di dimenticanza.
Insomma, la disciplina artistica per te è uno strumento di studio.
In quest'ottica,
quanto è importante nel tuo lavoro l'esperienza dei laboratori
teatrali che tieni?
Io ultimamente ho
sostituito la parola “laboratorio” con esercizio. E fare
esercizio insieme, credo restituisca al teatro il senso sociale su
cui esso fonda. Non è come la letteratura e la lettura, non è come
l'opera d'arte visuale. C'è bisogno di pubblico, di attori, di
tecnici, insomma di una cellula di società. Fare esercizi collettivi
permette forse di rientrare in sé rispetto all'atto di fare teatro.
E' questa una forma di
recupero del termine esercizio nel senso più filosofico, più
antico: la preistoria della filosofia, era costituita da esercizi che
miravano a far rientrare in sé la persona.
Si tratta di qualcosa di
simile agli esercizi spirituali. Il lavoro dell'attore mette in campo
qualche cosa di demoniaco che va in qualche modo esorcizzato e
compreso. Un demone che ti deve divorare e ti deve anche sputare.
Qual è la funzione
del teatro in un'epoca multi-tasking e dominata dalla tecnologia, ben
lontana dall'era della pura oralità da cui il teatro proviene? In
questo contesto, il teatro non rischia di apparire una disciplina di
nicchia, nonché una forma d'arte passatista?
Il teatro è
un'arte passata. E' demodé. E' impegnativo portare a teatro
delle persone.
Ma secondo me la
responsabilità del teatro oggi è quella di diventare ancor di più
esigente. Il teatro deve riscoprire la propria origine, andare alla
fonte originaria che era il teatro dei misteri, un teatro tragico,
che pone al centro la bara e quindi il funerale, perché quella bara
e quel funerale possano morire e risolversi.
Un rito?
Esatto. Questa è la
parola. Quindi, non un teatro commerciale, che nel perseguire
l'effetto dell'intrattenimento finisce per essere meno allettante del
cinema o di un musical.
Dalle tue parole
emergono delle connessioni forti, almeno sul piano teorico, con la
visione teatrale di Grotowski. A tal proposito, qual è la tua
posizione? Ci sono dei modelli artistici che hanno ispirato il tuo
lavoro, almeno inizialmente?
Se prendi Grotowski come
modello hai finito. Lo devi conoscere, ma lo puoi conoscere in tanti
modi, anche solo guardando le foto di Ryszard Cieslak. La conoscenza
può essere anche infantile, anche analfabetica. L'importante è che
tu lo conosca con la tua carne e che poi lo dimentichi, perché
oramai lo porti in te. Però non può diventare un modello,
altrimenti diventi un epigono.
Ecco perché per fare
teatro non posso avere un modello né un maestro. Devo divorare tutto
e scartare parecchio
C'è una categoria
o definizione per descrivere il tuo teatro senza forzature? Teatro di
ricerca? Di avanguardia? Teatro Povero?
No. Perché la ricerca è
interessante se poi si innesta nel solco della tradizione. Quindi
sceglierei semplicemente la categoria di “Teatro”. E di “Musica”
sicuramente, perché la musica pone al teatro delle problematiche
interessanti.
da TEATRIONLINE (Il Portale dell'Informazione Teatrale):
http://www.teatrionline.com/2016/08/tra-voce-e-azione-intervista-a-chiara-guidi-societas-raffaello-sanzio/
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