UN
TEATRO “VIVO”: INTERVISTA A MONICA CIARCELLUTI
Intervista
a cura di Paolo Verlengia
Abbiamo
incontrato Monica Ciarcelluti, attrice e regista pescarese, con
all'attivo un percorso teatrale variegato, articolato su scala
internazionale, che l'ha portata a conoscere realtà culturali,
sociali ed artistiche assai differenti.
Si
tratta di un documento assai interessante, tramite cui è possibile
cogliere le linee di coerenza che determinano la vocazione artistica
e la guidano lungo esperienze apparentemente eterogenee.
Quali
sono le tappe fondamentali tramite cui potresti riassumere il tuo
percorso artistico, dal manifestarsi dei primi interessi verso il
teatro fino alla dimensione professionale?
In
realtà da sempre, sin da bambina “ho giocato al teatro”. Con i
miei amici di cortile nei caldi pomeriggi estivi, si scendeva sotto
casa e il tempo migliore si spendeva a creare storie da far vivere
davanti al pubblico adulto. Avevo 7 anni e già organizzavo le mie
prime regie. Mi divertivo a montare i materiali.
Tutto
era vissuto in maniera inconscia ed assolutamente spontanea. La
consapevolezza è arrivata tardi, nei primi anni di Università. A 22
anni mi trovavo al Fringe di Edimburgo e lì vidi uno spettacolo di
una compagnia inglese, tratto da un’opera di Shakespeare. Ho capito
che volevo tentare, prima con la Compagnia amatoriale di Teatro
universitario, poi è emerso più chiaramente il desiderio di
crescere: ho capito che dovevo fare le valige e cercare dei maestri.
Un breve soggiorno in Danimarca, dove ho approfondito il lavoro
dell’Odin Teatret, poi gli studi di biomeccanica Teatrale
all’Istituto del Teatro di Barcellona. Ho incontrato Jurij
Alschitz, un grande maestro e pedagogo che certamente ha cambiato la
mia vita teatrale. Avevo visto alla Stazione Leopolda di Firenze la
Medea Material
con la regia di Anatolij Vassil’ev, per la prima volta ho pensato
“eureka, questo è il mio teatro”. Da quel momento ho lavorato e
studiato duramente per raggiungere il mio obiettivo: avvicinarmi a
una tradizione teatrale quale quella della scuola russa.
Il
tuo percorso formativo ed artistico ti ha portato all'estero, tra
Russia, Spagna e Grecia. Che ricordi conservi di ciascuna di queste
esperienze?
Per
quanto hai potuto vedere nella tua esperienza, c'è differenza nel
modo in cui il teatro è vissuto in Italia ed all'estero?
Sono
stata all’estero per ragioni diverse, legate alla formazione, alla
progettazione. Una cosa è certa. Negli altri paesi esiste ancora la
critica teatrale, mentre in Italia è moribonda. In Russia gli attori
hanno una dignità ed un rispetto inimmaginabili in Italia. In molti
paesi europei l’attore è tutelato, e lo stato gli riconosce una
vera e propria professionalità. In Italia no, per cui nella
mentalità comune il teatrante è “un perditempo”. Qui bisogna
essere sempre sotto l’egida dei potenti di turno, ci sono le mode,
esiste la logica dello scambio. Tutto questo
ovviamente non è altro che la diretta conseguenza di
una politica culturale errata.
Tu
sei sia attrice che regista. Come cambia il tuo approccio al lavoro
teatrale nei due ruoli?
In
realtà non molto. L’attore ricopre una consistente veste autoriale
nel mio modo di concepire il teatro, questo è stato uno degli
insegnamenti più fondanti della scuola da cui provengo. L’attore
ha una dignità artistica, in stretta posizione dialogica con il
proprio regista. La responsabilità del regista è quella di essere
certamente un “mediatore” tra l’autore, i materiali di lavoro e
l’attore. Guidare l’attore in maniera socratica, attraverso
l’arte della maieutica. Come attrice è bello cercare il proprio
momento di verità in scena. Quando sei fortunata e lo trovi, arriva
la luce e c’è la catarsi. Vale la pena anche fosse solo per
quell’unico istante.
Da
regista, quale metodo di lavoro segui nel costruire uno spettacolo o
una performance?
Il
presupposto è una grande disponibilità da parte degli attori a
prediligere il lavoro di ensemble
e la voglia di crescere e mettersi in gioco, computando anche il
fallimento. Nessun solista di talento emergerebbe in un ensemble
di musicisti stonati. Per il resto, io sono sempre in perenne
evoluzione e discussione, mi porto dietro tutte le esperienze
teatrali e gli incontri di crescita artistica avuti.
Qual
è la categoria o tipologia di teatro in cui ti riconosci, come
attrice e come regista?
Non
c’è una tipologia precisa, tuttavia prediligo il teatro ‘vivo’.
Mi viene in mente il verbo inglese “to prentend to”, che si rifà
molto al nostro “recitare”. Ecco, questo non mi piace, mi
riconosco molto di più nel gioco, preferisco perciò “to play”.
Il gioco prevede anche una buona dose di rischio ovviamente e dunque
la possibilità del fallimento. L’errore è una felix
culpa
in teatro, è generatore di vita e verità. Ecco, cosa mi piace in
scena, l’autenticità.
Quando
crei un nuovo spettacolo, da dove parte il processo creativo?
Da
un’urgenza, un tema da affrontare. L’emozione è solo corredo,
sicuramente mai un punto di partenza.
Nelle
tue produzioni artistiche ami la contaminazione tra il linguaggio
teatrale, arti visive e performance. Come mai? Cosa manca al
linguaggio teatrale nella sua nudità e cosa acquisisce tramite la
contaminazione con altri linguaggi?
Le
contaminazioni sono imprescindibili nel teatro del Novecento,
figuriamoci nel nostro millennio. Nascono nel momento stesso in cui
il sapere filosofico sancisce il suo legame indissolubile con l’arte,
anche se molti teatranti preferiscono ignorarlo, si consolano vivendo
sempre nel passato remoto. Dipende sempre se ti chiedi: cosa è stato
fatto prima di te e dove vuoi andare. Altrimenti è puro manierismo.
Oltre
alla regia, curi anche dei laboratori. Che peso ha questa esperienza
formativa nella tua attività?
Non
esiste regia senza pedagogia. Regia e formazione sono legate
indissolubilmente. Anche con i miei attori faccio pedagogia.
Costruiamo il tutto sempre in maniera laboratoriale, apprendiamo una
grammatica comune, è prioritario avere una metodika
di lavoro comune per poter parlare la stessa lingua.
Di
recente sei stata eletta Maestra per l'insegnamento del Metodo
Alschitz, vero? Puoi parlarci sinteticamente di questo aspetto della
tua attività?
E’
un diploma rilasciato dall’International
Theatre Institution partner
dell’Unesco congiuntamente alla European
Association for Theatre Culture
con sede a Berlino, che mi autorizza a divulgare il suo metodo
di lavoro: un ristrettissimo team d’insegnanti in Europa. Un
raggiungimento importante ma è solo l’inizio di una nuova fase con
nuovi obiettivi da raggiungere, importante
certamente, ma sono già nel futuro.
La
tua attività è connessa con una realtà teatrale come ARTERIE. Ce
la illustri brevemente?
Arterie
è la compagnia di teatro con cui produco gli spettacoli, in
principio con la vocazione di curare progetti di formazione teatrale
di matrice russa. E’ nata dall’incontro artistico con altri miei
colleghi registi e attori italiani, con cui si condivideva una stessa
idea di fare teatro. Abbiamo realizzato progetti importanti in Italia
e all’estero. La direzione della Compagnia è condivisa con
Riccardo Palmieri, regista e formatore teatrale di Modena.
Sei
anche attiva nel gruppo ARTISTI PER IL MATTA, a Pescara. Di cosa si
occupa e quali progetti hai curato?
Ho
ideato e curato per 5 anni l’Atelier Matta, un laboratorio
permanente che si occupa di alta formazione nelle arti della scena,
con
l'obiettivo di offrire sul territorio una formazione artistica di
alto livello orientata alla sperimentazione e alla contemporaneità.
E’ il luogo d’incontro tra i maestri della scena contemporanea e
gli artisti del territorio, desiderosi di confrontarsi con maestri
quali Bustric, Giorgio Rossi/Sosta Palmizi, Jurij Alschitz, Chiara
Guidi/Socìetas Raffaello Sanzio, solo per citare alcuni degli ospiti
che abbiamo avuto con noi.
Nel
tuo curriculum figura un'esperienza di respiro internazionale come il
“Nina's Project”? Puoi raccontarci qualcosa a riguardo?
Nell’anno
2010 Arterie è stato promotore del NINA’S
PROJECT, un’azione nata per celebrare il 150°
anniversario di Cechov. Attori e registi di tutta Europa si sono dati
appuntamento alla Stazione ferroviaria di Mosca la sera del 27
gennaio: ad attenderci un vagone ferroviario che durante tutta la
notte ha condotto la carovana di artisti a Yelets, per ripercorre
così il viaggio affrontato da Nina Zarečnaja, la giovane attrice
protagonista de Il Gabbiano. Il 28 e 29 gennaio, a Yelets, una
statua per Nina è stata deposta e a seguire due intere giornate di
performance teatrali degli artisti russi ospiti e del gruppo
internazionale, guidato da Jurij Alschitz. L’evento è stato
realizzato in collaborazione con il GITIS (Accademia Russa per le
Arti Teatrali) di Mosca e il Ministero dei Trasporti Russo.
Cechov
sembra un autore particolarmente importante per te. E' un'impressione
corretta?
In
parte sì, sono cresciuta con Cechov. Durante gli studi accademici
abbiamo studiato per mesi interi sui suoi testi La grandezza dei
classici sta nella loro perenne attualità. In Cechov sono molto
forti i temi legati alla fragilità umana, un leitmotiv
sempre presente nei miei lavori. La pochezza del genere umano,
impegnato in grandi imprese per poi allo stesso tempo cadere molto in
basso e perdersi nelle proprie fragilità e miserie, generatrici di
guerre, distruzione e tanto altro. In “Viaggio a Cechoville”, uno
dei miei ultimi spettacoli, mi premeva dar
vita ad una città-cosmos,
emblema della comune anima universale ma anche dei grandi paradossi
legati alla vita umana.
Hai
dei riferimenti tra gli artisti di scena, di cui apprezzi
particolarmente il modo di lavorare?
Stimo
molto il lavoro di Emma Dante, Antonio Latella, un genio come
Christoph Marthaler, le coreografie di Mats Ek, Akram Khan. In
realtà mi lascio contaminare da tutte le arti.
Qual
è lo spettacolo più bello a cui hai assistito?
Ne
ho visti tanti di belli, per fortuna. Di quello che mi ha cambiata,
ne abbiamo già parlato. Ultimamente ho ammirato uno spettacolo di
teatro per ragazzi, “Nella terra dei Lombrichi” tratto
dall’Alcesti di Euripide, per la regia di Chiara Guidi/Socìetas
Raffaello Sanzio. Sempre più spesso, anche a teatro, bisogna
ripartire dall’infanzia per tornare a commuoversi.
Quale
è stato il momento più difficile che hai affrontato in teatro nella
tua esperienza?
E’
sempre difficile.
Di
recente hai curato l'evento che ha portato a Pescara LA CATTEDRALE
SOMMERSA, il laboratorio con spettacolo finale ideato e diretto da
Chiara Guidi. Tu vi hai anche partecipato anche come attrice. Che
tipo di esperienza è stata?
Ciò
che conta sono gli incontri che procurano un cambiamento, che
comportano un salto in alto nella spirale della crescita
professionale. Chiara Guidi è una grande maestra ed una grande
donna, un connubio spesso raro. Abbiamo affrontato il lavoro sulla
partitura vocale, un approccio al teatro assolutamente nuovo, anche
se avevo affrontato un altro percorso di lavoro sulla drammaturgia
della parola che alcuni anni fa era sfociato nel poema-teatrale Maria
Maddalena o della Salvezza, un
solo.
Quando lavori con i grandi maestri, anche se le strade percorse sono
diverse, capisci che i principi fondanti sono sempre gli stessi. E’
la ricerca che ha portato poi a trovare nuove possibilità, deve
essere così, altrimenti vedremmo sempre lo stesso spettacolo. Mi
piace chiudere la nostra conversazione con questa massima: “Il
grande maestro è colui che non smette mai di essere allievo.” E’
stato l’inciso che ha segnato il nostro primo giorno di lavoro.
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