SCENARI
EUROPEI
Seconda
Edizione
(15-18
settembre 2016)
Secondo
anno di vita per il festival SCENARI EUROPEI (15-18 settembre 2016),
ideato e fortemente voluto dal Florian MetaTeatro, come
appuntamento che apre la stagione pescarese. L'iniziativa aveva
conosciuto una sorta di “anno zero” nel 2014, con una
fortunatissima edizione di SPECIALE SCENARIO, focus dedicato agli
spettacoli più interessanti usciti dal PREMIO SCENARIO. La proposta
ha poi allargato i propri orizzonti artistici alla drammaturgia
internazionale contemporanea ed agli artisti emergenti, giungendo
alla formula attuale. Immutata rimane l'impaginazione: un programma denso
di appuntamenti, che concentra in ogni serata almeno due proposte
artistiche, ospitate rispettivamente presso lo Spazio MATTA in prima
serata, e presso il FLORIAN ESPACE in seconda serata, dove lo
spettacolo viene preceduto da un breve concerto musicale dal vivo e
seguito da un incontro con gli artisti che si sono esibiti in
giornata.
Il
programma di quest'anno si è caratterizzato in maniera particolare
per il dialogo tra linguaggi artistici, spesso coniugati all'interno
di un medesimo spettacolo. Si è così passati agilmente dalle
proiezioni video al teatro danza, dalla clownerie alla mise
en espace, dalla performance di matrice più visuale a quella
marcatamente di parola, senza dimenticare la musica, la cui presenza
acquisisce sempre più il profilo di un elemento performativo oltre
che programmatico, superando definitivamente la dimensione
intrattenitiva del mero sottofondo che allieti l'attesa nel foyer.
GIOVEDI'
15 SETTEMBRE
Apre
le danze la giovane compagnia Can Bagnato con “Pater Familias”,
performance ideata ed interpretata da Eugenio Di Vito, con la
regia di Valentina Musolino. Di Vito, di natali abruzzesi, ha alle
spalle un percorso ampio di esperienze che lo hanno condotto spesso
lontano da casa. Attivo in diverse formazioni, identifica la sua
cifra più tipica nella fusione della danza con il teatro di strada.
La performance si struttura nelle forme di un trittico dedicato alla
stilizzazione diversificata del tema della paternità. Se il primo
quadro esprime l'impaccio di fronte alla responsabilità tramite un
fresco numero di slapstick che ricorda le comiche del cinema
muto, il secondo rompe volutamente il diaframma della finzione e
dell'immedesimazione da parte del pubblico nell'azione scenica, pur
proseguendo sulla chiave ironica ma introducendo in maniera più
chiara e codificata il linguaggio della danza, che domina nel quadro
conclusivo.
Lavoro
agile, dove l'abilità tecnica e la forza del linguaggio scenico
predominano sull'efficacia del linguaggio meta-teatrale per quanto
riguarda l'immediatezza del rapporto con il pubblico, che nella
clownerie e nello spettacolo di strada ricopre un'importanza
non trascurabile.
“Esodo”
di Valentino Mannìas propone invece ingredienti più
eminentemente teatrali, imperniati sulla tradizione del racconto
orale, che il giovane artista fa derivare dichiaratamente dalle sue
origini sarde. Il titolo allude al tema dell'emigrazione, che negli
isolani amplifica i suoi toni, drammatici ma anche mitici, riuscendo
a coinvolgere trasversalmente anche il pubblico “continentale”.
L'aspetto forse più interessante dello spettacolo sta nella sua
dualità: lavoro pirotecnico sul piano del ritmo e della comicità,
quanto geometrico e studiato nella gestione dell'emozione; ti incolla
con tutti i mezzi della tecnica teatrale a ciò che accade ora in
scena, pur essendo uno spettacolo dove il testo gioca un ruolo
rilevante e la spettacolarità ottenuta è in buona parte già
contenuta e predisposta nelle maglie della scrittura.
Così,
Mannìas dissimula sul palco la sua tempra di scafato autore tramite
una recitazione calda, fisicamente indefessa, apparentemente
istintiva e genuina, dove riesce a riversare tutte le sue doti
istrioniche. La musicalità della parola si trasfonde nella musica
tout court, affidata sul palco a Luca Spanu, fine
polistrumentista ma anche fido deuteragonista nel farsi della
narrazione. Il lavoro vive difatti di una fusione integrale tra gli
elementi della parola e della musica (esplorata a 360° fino ai
territori della rumoristica), coinvolgendo il piano sonoro nella
funzione drammaturgica.
Eccellente
prova di bravura, con punte di aperta e ricorrente
mattatorialità, in cui manca il raggiungimento di quella quiddità
in cui si compie lo statuto pieno dell'opera d'arte. Per
il futuro che gli arride, la scelta spetta tutta a Mannìas: se
proseguire su di una strada collaudata dal sicuro riscontro popolare o
se completare l'affinamento del suo indiscutibile talento tramite il
coinvolgimento di colorazioni più misurate e trattenute,
addentrandosi nelle dimensioni più ampie e chiaroscurali (eppure
artisticamente più dense e luminose) che scaturiscono da un lavoro
di sottrazione.
VENERDI'
16 SETTEMBRE
Prima
serata dedicata alla video-arte. Si inizia con Giuseppe D'Antona,
giovanissimo video-maker che presenta il suo “Not I” ,
trasposizione dell'omonimo monologo di Samuel Beckett. Il lavoro
tende da un lato alla resa quanto più fedele del testo beckettiano,
forse il più lontano dalle potenzialità visuali, tentando di
svilupparne in chiave cinematografica i motivi tematici impliciti.
D'antona crea così delle bolle filmiche molto circoscritte collocate
dentro ai movimenti del delirio verbale, mirando a dare forma alla
temperie emotiva ed interiore che soggiace al difficile testo, più
che a tracciare linee narrative o rappresentazioni fisiche
naturalistiche. In particolare, appare predominante l'interesse di
D'Antona verso gli aspetti intransitivi e solipsistici che sono
organici alla natura stessa della comunicazione, al di là del caso
soggettivo specifico (ovvero al di là della situazione individuale
che emerge -tra buchi e sconnessioni studiati ad arte- dalla
confessione fiume immaginata da Beckett). Prova incoraggiante, in cui
si mostra una buona padronanza degli strumenti tecnici; ancora in
fìeri la definizione dei processi compositivi, per quanto attiene
alla elaborazione del soggetto ed allo sviluppo di chiavi espressive
meno didascaliche.
Segue la proiezione di tre brevi lavori della compagnia Dehor/Audela, impegnata sul sentiero della contaminazione ed interferenza reciproca tra video-arte, teatro, danza ed installazione. Il duo formato da Salvatore Insana e Elisa Turco Liveri è protagonista di un focus specifico ritagliato all'interno del festival SCENARI EUROPEI, mirato ad indagare nell'arco di due giornate le diverse ramificazioni produttive della compagnia romana. Il trittico delle proiezioni proposte per l'occasione
(“Dov'era
che non ero”, “A propos de l'été de l'ame”, “Nero Enigma”) rappresenta una selezione assai sintetica
della prolifica produzione dei Dehor/Audela, ma appare
sufficientemente esaustivo per presentare in maniera chiara le linee
portanti della loro cifra stilistica: una minimizzazione intenzionale
del ricorso alla parola, per concentrare l'attenzione sui restanti
elementi semantici e quindi sulla ricerca di senso, che
l'espressività logica ed alogica del verbo tende a fagocitare. In
questa riscrittura dei segni, appare centrale l'importanza di cui
viene investito il corpo umano, come materia vivente ma anche
semplicemente come strumento stilistico che permetta di tracciare
linee sulla pagina dei luoghi. Il luogo è per l'appunto l'altro
topos forte nella mappatura espressiva dei Dehors/Audela:
luogo che supera nettamente la funzione di setting per
l'azione e che, come per il corpo, si fa segno di significazione, ora
totemico ora mimetico, ma sempre rigorosamente lontano dagli scenari
urbani ed assuefatti allo sguardo.
La
cura dell'immagine -impastata e complicata dai filtri ottici-
riavvicina la tecnica cinematografica ai territori storici della
fotografia, così come appare importante la ricerca operata sul suono
(mai vera e propria musica) nello spazio libero e liberato dalla
dittatura della lingua.
Nella
seconda parte della serata, spazio invece al teatro di parola con il
collettivo Industria Indipendente, che propone il suo “Lullaby
(tragedia aerobica)”, testo selezionato da PAV Fabulamundi,
progetto internazionale per la valorizzazione della drammaturgia
contemporanea. Scritto a quattro mani dalle fondatrici storiche della
formazione, Erika Galli e Martina Ruggeri, sull'onda di lavori
pluri-premiati -come “Crepacuore”, “Supernova”, “I Ragazzi
del Cavalcavia”- “Lullaby” è una satira graffiante dell'oggi
tramite una proiezione distopica, collocata nel 2056, ovvero
esattamente a cinquant'anni da oggi. Dal punto di vista tematico e
drammaturgico, la particolarità distintiva di questo lavoro sta nel
fatto che la distopia viene ricavata non già sviluppando
analiticamente le contraddizioni palesi della società attuale, bensì
portando alle estreme conseguenze quanto oggi apparirebbe come il
migliore degli esiti possibili sul piano sociale e politico. Si
immagina infatti un'Europa finalmente armonizzata e federata alla
stregua degli USA, ed un sistema sociale che opera automaticamente il
ricambio generazionale. Un paradiso artificiale ospita coattamente
gli anziani al compimento dei loro settant'anni, passando agli eredi
la gestione dei beni e dei capitali, così come i posti dirigenziali
vengono costantemente liberati a favore dei giovani. Lullaby è il
nome di una sorta di “spa di stato” dove ogni momento della
giornata è cadenzato da attività mirate ad assicurare il benessere
mentale e fisico dei suoi ospiti. In questa situazione drammaturgica,
l'azione si concentra su quattro personaggi, due uomini e due donne,
quasi ottuagenari ma pervasi dal giovanilismo e dall'edonismo che
impera in questo futuro dolciastro e stucchevole. Il dramma che
emerge sta proprio nella riscoperta della normalità -problematica ma
vitale- che esiste al di fuori di Lullaby e di tutte le illusioni
umane di poter governare sull'ordine naturale. Commedia brillante
oltre che intelligente, sostenuta con grande senso della scena, ma
anche dei ritmi e degli equilibri drammaturgici: ci sono qua e là un
paio di tirate lunghe da parte dei singoli personaggi, ma la maggior
parte del testo fluisce sull'onda di un botta e risposta agilissimo.
La riflessione passa attraverso le forme della caricatura, palesata
da un trucco più che appariscente: gli attori indossano maschere di
plastica morbida e parrucche bianche, che non mirano tanto a creare
un effetto di invecchiamento naturalisticamente credibile, quanto a
rendere macroscopicamente il senso e la sensazione di un giovanilismo
grottesco. Bravissimi gli interpreti, capaci di porgere in maniera
perfettamente godibile una mise en espace della durata di
oltre un'ora, che la regia colora con controscene e trovate di
corredo sempre teatralmente efficaci.
SABATO
17 SETTEMBRE
Si
completa il focus dedicato alla formazione romana dei Dehors/Audela,
attraverso la messinscena di “Perfetto
Indefinito”. La performance prende forma da uno studio
effettuato sulla figura enigmatica ed interessantissima di Claude
Cahun, al secolo Lucy Schwob, artista francese semi-sconosciuta che
afferì ai temi ed alle tecniche del Surrealismo, in particolare per
quanto riguarda gli ambiti della fotografia e della scrittura. Il
doppio nome è l'epitome di una duplicità complessiva della Cahun,
che trasfigurava creativamente la propria omosessualità tramite un
ricorso rituale al travestitismo. “Perfetto Indefinito”
interviene su queste pieghe problematiche che toccano la definizione
dell'identità, oscillando tra ostentazione e rimozione. L'ossimoro
utilizzato nel titolo, oltre a contenere il concetto di doppio e di
ambivalente, ben esprime la liquidità del sé che caratterizza
l'opera ed il profilo personale della Cahun. In scena, il lavoro
assume le forme di una performance di teatro-immagine, con sequenze
afferibili alla forma del teatro-danza, in cui il ricorso alla parola
è limitato a parentesi del tutto circoscritte, brevi ed ermetiche.
Uno schermo vela il piano dell'azione, separando fisicamente oltre
che funzionalmente la scena e la platea. Nell'aldilà scenico che si
apre oltre lo schermo si intravede una massa volumetrica, quasi
scultorea, di abiti e biancheria accumulati a terra, ma il piano
della visione e dell'apparire si complica tramite l'interferenza
delle proiezioni che lo schermo viene intermittentemente ad ospitare:
appaiono figure ora informi ora deformate, brani di testo, linee del
viso nell'atto di mostrarsi quanto di nascondersi. Allo stesso modo,
lo schermo gioca ad inquadrare e ad opacizzare di volta in volta
l'azione della performer -una Elisa Turco Liveri poliedrica e
mutevole, inquieta inquietante o sbarazzina a seconda dei momenti-
che si sviluppa sui diversi piani della profondità scenica, ma
sempre rigorosamente al di là da noi. La scena-quadro si stratifica
con soluzioni sempre dense sul piano semantico, superando ogni limite
di manierismo estetico. Nei passaggi più suggestivi, l'immagine
proiettata interagisce con la performance fisica dell'attrice,
impegnata a disegnare movimenti obliqui e pose incerte di un corpo
perennemente convulso da scariche di energia interiore, liberato solo
in momenti rapidi di fluidità straniante. Attraverso questo
linguaggio composito -fatto di segno corporeo e disegno digitale,
sull'intrico di sonorità elettrificate, parole scritte e parole
sonore- passa in maniera efficace il senso di una identità non
problematica ma problematizzata, ovvero perlustrata fino ai meandri
insondabili della profondità umana, dove non attecchiscono le
categorie culturali. Qualche passaggio non pienamente ispirato non
intacca la solidità di un lavoro in cui, al di là delle
interpretazioni, molto avviene e molto viene immesso in termini di
ideazione.
Nella
seconda serata i Muta Imago portano in scena il loro
ultimissimo lavoro, prodotto nell'ambito del progetto PAV Fabulamundi
e fresco di debutto al Festival ShortTheatre di Roma. “Polices!”,
scritto dall'autrice francese Chiara Chiambretto, diventa nelle mani
dei Muta Imago uno spettacolo assolutamente emozionante. La premessa
si colma di significato alla luce di un testo dalla cifra politica
come quello creato dalla Chiambretto, secondo i modi della “fiction
oggettiva” che sono consueti alla sua scrittura, dove le
conversazioni reali e documentali (dalle registrazioni in presa
diretta alle email private, agli atti ufficiali) vengono a comporre
il montaggio del testo. Questa neutralizzazione testuale, che azzera
l'elaborazione estetica e artistica del materiale drammaturgico,
lascia in eredità nelle mani degli artisti di scena una magma
duttile di potenzialità stilistiche diverse. In questa condizione, i
Muta Imago propendono per un allestimento connotato da un lavoro
registico denso: la scena, pur senza fronzoli, assume i lineamenti di
una postazione operativa per il lavoro attorico. Due schermi posti su
rette oblique convergenti in fondo alla scena, preparano un rombo che
prosegue verso il proscenio, ospitando sulle sue linee tre microfoni
ad asta ed uno a terra, completati da un quinto microfono posto su di
un banchetto mobile. Monica Demuru gestisce con disinvoltura questo
“laboratorio” polifunzionale, che con il procedere dei minuti le
permette di costruire dal vivo, nel qui ed ora della
performance, un sovra-testo di echi e sonorità moltiplicate, grazie
alla registrazione contestuale ed alla riproduzione degli effetti
audio da lei soffiati o esplosi al momento nei diversi microfoni a
sua disposizione. Al contempo, sugli schermi compaiono le immagini
dei luoghi che hanno fatto da scenario realistico alle situazioni
riferite (aule di tribunale, strade, abitazioni), come anche
“didascalie” e trascrizioni tradotte delle tracce audio. La
sofisticata e geniale macchineria di scena opera così una sorta di
“straniamento 2.0” dello spettacolo, in cui il filtro umano della
performer si frappone in determinati momenti, trattenendo per sé gli
audio di repertorio e lasciandone al pubblico solo una riproduzione
secondaria, che fatalmente copia e “falsifica” al tempo stesso il
documento originale. E' il caso di un paio di registrazioni relative
agli scontri avvenuti tra la polizia francese e gli abitanti delle
banlieue parigine, che l'attrice ascolta da una cuffia e
ripete con lo scarto temporale di una manciata di secondi, nelle
modalità meccaniche della traduzione simultanea, pur senza
intervenire sull'idioma del documento originale. Monica Demuru -da
attrice e da cantante di classe cristallina- è immensa in questa
prova che lei alimenta con tutta la gamma della sua formidabile
vocalità, raggiungendo vette apicali di intensità e precisione
attorica. La regia fine ed intelligente di Claudia Sorace (con
l'importante collaborazione di Riccardo Fazi per la parte sonora) riesce a dotare di connotazioni estetiche ed
emozionali il corpo scabro del materiale drammaturgico senza con ciò
intaccarne minimamente la genuinità contenutistica. Al contrario, la
spettacolarità rigorosa del lavoro interviene a trasferire in misura
determinante e vincente tutte le prerogative che il testo tratteneva
in potenza.
DOMENICA 18 SETTEMBRE
“Right
on” di Daniela Marcozzi si inserisce nel solco dello
spettacolo politico, sviluppando un linguaggio performativo genuino e
rituale che richiama le forme di tradizioni culturali lontane e pare
voler rifuggire da una elaborazione formale complessa e strutturata.
L'artista abruzzese parte da una vicenda realmente accaduta, relativa
alla sorprendente facilità con cui possono avvenire gli arresti per
attività sovversiva in virtù della legislazione anti-terrorismo
codificata dopo i fatti dell'11 settembre 2001. Nel percorso che
conduce alla scena, la materia originale viene trasfigurata
notevolmente alla ricerca di un magma creativo solido ed
indipendente, che Daniela Marcozzi reperisce attingendo sia al
linguaggio corporeo che ad uno studio ampio condotto a raggiera sul
tema della percezione del crimine. In particolare, l'attenzione viene
focalizzata su “La Peste” di Albert Camus, non già sul piano
testuale quanto in relazione al concetto di male come malattia, di
cui l'umano può facilmente contrarre il contagio e dal quale può
immunizzarsi solo a patto di uno sforzo consapevole. Lo spettacolo (recitato in inglese, con la proiezione di sovratitoli in italiano)
viene a strutturarsi su due piani distinti, collocati in sezioni ben
delimitate dell'azione: la performance fisico-gestuale ed il teatro
di parola, con l'inserto di momenti cantati. L'attenzione principale
del linguaggio composto da Daniela Marcozzi pare focalizzarsi sul
flusso di energia che irrori sempre impetuoso l'azione in scena, dal
gesto al movimento alla parola. In ciò si può riconoscere
l'esperienza di training grotowskiano svolta a lungo dall'artista
abruzzese, oggi attiva a Berlino con la sua compagnia di teatro
contemporaneo e la sua attività di pedagogia teatrale. In secondo
piano sembrano allocarsi altre problematiche di scena, dalla
formalizzazione recitativa all'elaborazione drammaturgica. Ne viene
fuori una performance delle tinte para-teatrali, in cui anche respira
la traccia delle avanguardie americane che hanno cavalcato le utopie
degli anni '60.
Finale
di festival folgorante con Lorena Senestro e la sua
irresistibile “Madama Bovary”. Qualunque sia l'aspettativa dello
spettatore, il risultato sarà sorprendente. Potete attendervi un
lavoro filologicamente corretto su Flaubert oppure una riscrittura
coraggiosa, finanche una parodia irriverente verso un classico
immarcescibile della nostra tradizione, ma nessuno sforzo di
immaginazione potrà condurvi così in là. Lorena Senestro non si
pone limiti in scena nel suo inglobare e pasteggiare voluttuosamente
parole e singulti della sua eroina. Certo, nessun limite se non
quello del gusto teatrale (e che gusto!). Sì perché “Madama
Bovary” è uno spettacolo che si imbeve di capacità istrioniche
che derivano direttamente dalla pratica intensa del mestiere attorico
(la confidenza con la scena, il rapporto con il pubblico,
l'immediatezza dell'espressione e la ricchezza mimico-vocale della
recitazione), ma qui non siamo di fronte al mero teatro d'attore. C'è
una fantasia drammaturgica corredata da una riflessione lucida e da
una passione schietta per la letteratura (la conferma viene dagli
altri lavori di Lorena Senestro, dedicati a Leopardi, Gozzano,
Pavese). Questa inedita Emma Bovary ci ammicca con la prossimità
modale dei giorni nostri, ma non disperde il profumo di un passato
eroico, delle feste galanti, delle delusioni tragiche, dei gesti
estremi. Il pastiche linguistico escogitato magistralmente
dall'attrice piemontese mescola la prosa fine con il verso poetico,
ma anche con la tradizione popolare, dal sermo quotidiano all'estro
dialettale, fino al patrimonio popolare ed alla cultura pop. Il testo
così sapientemente intelaiato funge in scena da trampolino di lancio
per virtuosismi stilistici, che Lorena Senestro riempie sempre di
energia e luce. Sola e quasi infissa come la bambolina di un carillon
in una postura di attesa, protesa ad afferrare un momento che non
verrà mai perché mai sarà all'altezza della sua immaginazione, noi
spettatori quasi non ci accorgiamo della solitudine di Emma nel vuoto
enorme del palcoscenico spoglio, tanto è pieno e costante il suo
dondolare ed oscillare sul posto, tra le discese in picchiata imposte
dagli andirivieni del suo viaggio umorale. Lorena Senestro, pur
concedendo un saggio esaustivo della sua formidabile macchina
attoriale, confeziona con acume, misura e maturità uno
spettacolo dalla teatralità semplicemente completa e totale.
Applausi.
Paolo
Verlengia
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