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MASCULU E FIAMMINA” DI SAVERIO LA RUINA
Andato in scena il 12 febbraio 2017 presso l'Auditorium Petruzzi, Pescara

di Paolo Verlengia (www.teatrionline.com)

Non c'è dubbio: l'arte del monologo offre al solitario attore la sponda ideale per mettere in mostra -in maniera persino muscolare- la gamma delle sue doti tecniche, istrioniche, mattatoriali. Anzi, queste qualità, spesso più caratteriali che non eminentemente artistiche, sono strutturalmente necessarie per reggere l'obbligo al protagonismo che l'assolo comporta, soprattutto per accompagnare in maniera efficace l'attenzione del pubblico. Sono questioni che attraversano la storia del teatro da secoli, forse da sempre: dai tempi dei giullari e, per certi versi, dei misteri medievali, se non si vuole risalire all'età classica o ai riti più ancestrali delle diverse civiltà. Così oggi, mentre la marginalità economica e mediatica del teatro rende quest'arte povera e missionaria -se non proprio “santa”- il discorso si ripete e si aggroviglia, tirando assieme questioni vecchie e nuove.
A riguardo, Saverio La Ruina, un artista che con i suoi monologhi ha ottenuto i riconoscimenti più importanti (una manciata di premi Ubu tra il 2007 e il 2012, conditi da un premio Hystrio), sembra voler alimentare le possibilità del dubbio più che consolidare le certezze della tradizione: tutt'altro che mattatoriale, il suo linguaggio scenico si contraddistingue per una delicatezza che si fa quasi fragile oltre che gentile, ritagliandosi di certo i contorni dell'eccezione nel mondo della comunicazione tout court prima che specificamente teatrale.
Tutto questo è particolarmente vero in “Masculu e Fiammina”, l'ultimo lavoro dell'attore e autore calabrese, poiché il lungo discorso del protagonista Peppino rientra nelle categorie intime della confessione. Non solo: è la confessione fatta da un figlio alla madre defunta, nel corso di una delle lunghe visite che egli compie quotidianamente sulla tomba di lei. Il tutto sembra attutito dal freddo e dalla neve che fa da contorno a questo rito personale, individuale, tenero.
Qui si gioca la prima chiave drammaturgica che sta alla base del progetto: l'attore non si rivolge direttamente al pubblico ma ad un personaggio muto, fisicamente assente, o meglio presente solo sotto la forma di una “lapidaria” fotografia cimiteriale. In questo dettaglio apparentemente marginale si gioca una grande porzione dello spettacolo: il sepolcro posticcio, pur nella sua piccolezza mantiene intatti tutti i limiti gravosi di un realismo scenografico che incatena alla mediocrità stilistica, rinunciando al respiro che sarebbe fornito dai modi dell'astrazione. Naturalmente, anche la prossemica della recitazione è condizionata da questa scelta, che -nell'ora e più dello spettacolo- porta La Ruina a cercare variazioni di posizione talvolta innaturali (o meglio, connaturate alla convenzione teatrale), andando ad occupare angolazioni diverse del palco, ma sempre in riferimento ad un punto ben preciso dello spazio scenico: quel “luogo deputato” dove è stato collocato il destinatario della parola.
Quel che è certo è che se questo impianto taglia fuori il pubblico dalla comunicazione diretta che ci si può attendere da un monologo, non indebolisce la sua partecipazione, mentale ed emotiva. Anzi, il canale intenso che si attiva dipende forse proprio dalla meccanica di un allestimento che trasforma lo spettatore in un testimone -quasi voyeristico- di un momento privato: Peppino trova finalmente il coraggio di rivelare alla madre la sua omosessualità, ora che lei non c'è più, anche se lui per primo sa che lei in fondo ha sempre saputo tutto.
L'apparente contraddizione di questo dialogo tra palco e platea si spiega solo con una considerazione: quello di Saverio De Ruina non è teatro di narrazione, e ancor più non è teatro di regia. E' teatro d'attore nel senso forse più pieno della definizione, riempito cioè integralmente dalla sensibilità dell'interprete in scena. La delicatezza cui si accennava più sopra copre come un manto tutti gli strati dello spettacolo: la confessione di Peppino non è un atto dovuto o un segno di prostrazione, ma un gesto gratuito, inane, che racchiude tutto il suo valore nella liberazione che procura a chi la compie. Ed ancora, il racconto dei soprusi e delle vigliaccherie subite, alimentati dai tabù particolarmente tenaci nella cultura meridionale, viene attraversato senza il minimo spirito di rivalsa, lasciando volentieri il passo al racconto di ciò che è stato bello in quella metà di vita che la madre di Peppino ha potuto solo intuire, ma non conoscere.
E se la lingua dialettale non è una novità nel lavoro di La Ruina, qui la sua presenza partecipa come strumento essenziale al progetto di una teatralità intima e confidenziale, giocata su toni vocali socchiusi, che giustificano sul piano tecnico la scelta dell'amplificazione microfonica. L'ultimo ma decisivo ingrediente che ammorbidisce la gravità potenziale della materia confessionale è dato dall'ironia, distribuita con istinto attorico puntuale, ma tenuta sempre in tono con la misura lieve della scrittura, che dispiega le labbra maggiormente alla dolcezza del sorriso che non alla sonorità del divertimento vero e proprio. Il racconto si popola di nomi e storie di personaggi comprimari, secondo una formula tipicamente riconoscibile nella cultura di paese, fungendo da abile architrave per sorreggere agilmente la fissità della situazione scenica. Meno riuscito il ponte con il contesto storico e politico, per la brevità dei cenni con cui viene sviluppato, ma soprattutto perché lontano dalla sostanza tutta sentimentale, rarefatta che alimenta il cuore del racconto e che trova conferma nel pulviscolo leggero di una chiusura dai tratti genuinamente sfumati.

Masculu e Fiammina”
di e con Saverio La Ruina
Genere: Monologo
Musiche originali: Gianfranco De Franco
Collaborazione alla regia: Cecilia Foti
Scene: Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
Disegno luci: Dario De Luca e Mario Giordano
Audio e luci: Mario Giordano
Organizzazione: Settimio Pisano
Produzione: Scena Verticale

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